di Armando Pepe
Raccoglie i frutti di lunghi anni di ricerche archivistiche e bibliografiche il volume scritto da Gilles Bertrand a proposito della lunga storia, quasi millenaria, del carnevale di Venezia, pubblicato per i tipi della casa editrice CIERRE, di Sommacampagna, in Veneto. È la traduzione in lingua italiana di un libro apparso nel 2013 nel mercato editoriale francese, che ha per titolo Histoire du carnaval de Venise, XIe-XXIe siècle, Paris, Pygmalion, 2013, 358 pagine.
L’edizione attuale, tradotta egregiamente da Patrizia De Capitani e Marco Fincardi, ha più o meno lo stesso numero di pagine, che raggiungono il numero di 340. Una prima impressione che dà il libro è quella di essere una storia delle storie del carnevale di Venezia, di cui sono presi in esame, attento e critico, gli aspetti identitari, culturali, politici, relazionali, iconologici e psicologici.
L’incipit, in chiave pedagogica, accompagna il lettore in un tempo lontano, che risale al medioevo. Si chiede l’Autore: «che cos’è il carnevale di Venezia e come possiamo capirlo in profondità? Ristabilito nel 1980, questo momento di festa, che ogni anno da allora si svolge nei dieci giorni precedenti la quaresima, non costituisce una realtà che ci sarebbe stata trasmessa in modo costante e univoco fin dalle sue origini. Il carnevale apparve alla fine dell’XI secolo, o almeno è a partire dal 1094 che ne troviamo la prima menzione nelle leggi e nelle cronache» (p. 9). Sottolinea Gilles Bertrand in premessa che la festa carnevalesca è un insieme di tanti riti (antropologici e apotropaici) fusi e condensati in un flusso che appare unitario, pure essendo il portato di tante e distinte realtà. Il carnevale veneziano, nel corso dei secoli, si è trasformato in «emblema della civiltà, della cortesia urbana, dell’arte della conversazione e della dinamica del segreto generata e stimolata dal processo che Norbert Elias ha descritto con l’espressione “civiltà delle buone maniere”» (p. 10).
Si potrebbe affermare, senza tema di smentita, che il rituale festivo lagunare, inserendosi a pieno titolo nel gran teatro del mondo, offre una lettura multipolare, in cui ognuno vede ciò che crede. Nella storiografia a cavallo tra XIX e XX secolo «gli studiosi si sono concentrati su alcuni aspetti più specifici della vita carnevalesca, come le leggi contro il libertinaggio, esaminate da Giuseppe Tassini (1886), i giochi d’azzardo, trattati da Giovanni Dolcetti (1903), o le leggi suntuarie, analizzate da Giulio Bistort (1912). Dal canto suo, lo storico Pompeo Molmenti (1852-1928) ha offerto nella sua celebre Storia di Venezia nella vita privata in tre volumi, riedita sette volte e accresciuta fra il 1879 e il 1929, un vasto panorama della vita quotidiana dei veneziani fino alla fine della Repubblica nel 1797. Molmenti ha suggellato la visione canonica del carnevale nei primi decenni dell’unità italiana» (p. 18).
Gilles Bertrand riannoda i fili delle narrazioni, riprende daccapo gli eventi salienti di questa lunga storia, segnata da discontinuità che si ricompongono, fino ad arrivare ad oggi. Venezia è percorsa in lungo e in largo, poiché il suo Carnevale è soprattutto festa dei luoghi e nei luoghi. Ne diventa il centro delle festività Piazza San Marco che «collegata a Santa Maria Formosa dal percorso pedestre del Doge e della Signoria, divenne il luogo di vera convergenza delle festività carnevalesche» (p. 31). Si susseguono eventi progressivamente segnati da sottrazioni, in cui antiche usanze da energumeni si andavano lentamente spegnendo, ed introduzioni, quando le leziose maschere e le pregiate bautte si diffondevano capillarmente.
Il tratto distintivo o nota caratterizzante che l’Autore pone in rilievo è il senso comunitario, la coesione civica, pur nella dominazione aristocratica. Il carnevale a tutti gli effetti rappresentava una festa di Stato e come tale la si doveva disciplinare, fare in modo cioè che rientrasse nei canoni legalitari, senza che ci fossero eccessi. A ciò pensava il Consiglio dei Dieci.
Ci si sorprende a leggere queste pagine dedicate a Venezia del tempo che fu, a ripercorrere « “il gioco delle forze tra Nicolotti e Castellani, la danza detta “moresca”, il Volo del Turco, che prendeva il nome dal fatto che, a quanto pare, era stato un turco il primo ad eseguire questo atto acrobatico, e infine i fuochi d’artificio. I patrizi e il Doge assistevano allo spettacolo come spettatori, mentre il popolo e i cittadini ne erano gli attori» (p. 34). C’era una molteplicità di divertimenti che specularmente rappresentava l’immagine che Venezia voleva dare di sé stessa al mondo. Le decine e decine di scrittori, noti e meno noti, di cose veneziane, consultati da Bertrand offrono un campionario esaustivo, una vasta gamma di particolarità.
Soffermandosi sul ruolo della maschera, sull’importanza della commedia dell’arte, si osserva che «nel XVIII secolo sussistevano quattro principali tipi di travestimento accanto a quelli che erano specifici dell’aristocrazia. I primi si ispiravano ai personaggi della commedia dell’arte che scendevano dai palchi per diventare a loro volta spettatori del carnevale, in particolare i quattro grandi tipi della commedia veneziana: Arlecchino, Pantalone, Coviello e il Dottor Graziano o Balanzone. A questi si erano aggiunti Truffaldino, Brighella, l’antico Zanni, Scaramouche, Tartaglia, Pierrot, Colombina e Pulcinella. I travestimenti del vecchio Magnifico, re del carnevale, e del Mattacino, che lanciava le uova, si ricollegavano allo spirito della commedia dell’arte perché chi li indossava interpretava un ruolo fisso per tutta la durata del carnevale» (p. 51). Maschere che, pur reiventandosi quotidianamente, rimanevano e tuttora rimangono nella fissità dei ruoli, lontane dalla lezione meta-teatrale pirandelliana.
Aspetto fondamentale dell’appuntamento veneziano è l’esplosione dei colori, maschere, coriandoli e costumi che formano un tutt’uno con l’ambiente, con i riflessi delle acque, con le gradazioni della luce solare, con il buio della notte. Pari se non superiore alla documentazione libraria, amministrativa, giudiziaria e civile in genere, è la tradizione iconologica, poiché quadri incisioni e disegni, circolando, hanno costituito altrettanti vettori comunicativi, moltiplicando esponenzialmente le modalità pubblicitarie del carnevale. Scrive Gilles Bertrand, a tal proposito, che «l’immaginario del carnevale si basò inizialmente sulle incisioni, che circolarono in Europa alla fine del Cinquecento e soprattutto nel Seicento. Le prime divennero celebri mentre Venezia impostava il suo ripiegare sulle partiche festive per compensare la sua perdita di prestigio commerciale e diplomatico. Dapprima limitate a quelle di Giacomo Franco e dei Bertelli, vennero rimpiazzate dalle raccolte di stampe che riecheggiavano il fasto delle regate in occasione dell’arrivo dei principi stranieri. Fino al termine del Seicento ci sono rimaste poche scene del carnevale. Fu soprattutto nel Settecento che le vedute di Venezia e delle sue feste abbondarono. Da Carlevarijs a Guardi, passando per Canaletto, le famose vedute e i rari ritratti di stranieri dipinti in maschera raggiunsero diverse collezioni inglesi. La mania per le scene carnevalesche non fu meno vivace a livello veneto, poiché molte opere di artisti veneziani che rappresentavano il carnevale nacquero negli atelier della Serenissima e talora si diffusero a Venezia e in Terraferma. Fu il caso dei disegni di Giambattista Tiepolo e delle caricature di Anton Maria Zanetti, delle scene di genere di Pietro Longhi, delle tele rigorosamente documentarie di Gabriele Bella, degli affreschi e schizzi di Giandomenico Tiepolo. Questa ricca panoplia di rappresentazioni permette di misurare le realtà mutevoli e complesse di quella che si venne a configurare come una vera e propria “fabbrica” immaginaria del carnevale» (p. 156).
Una tradizione pittorica e, simultaneamente, una costruzione degli immaginari che si sono radicate per li rami in un canone artistico distante dal semplice motivo oleografico poiché ricco di sfumature sensoriali e di particolari accorgimenti, ancora florido nel primo Novecento con gli acquerelli di Raffaele Mainella e Giuseppe Vizzotto Alberti.
L’apparato iconografico inserito nel libro lo dimostra chiaramente. Piace far qui notare la «Cazza del toro», ovvero la caccia al toro, incisione di Pietro Bertelli, laddove didascalicamente ed icasticamente Gilles Bertrand afferma che «lo spettacolo della crudeltà fa parte della quotidianità delle celebrazioni carnevalesche a Venezia fin dal Medioevo» (tavola I). Belle in verità sono tutte le tavole iconografiche, che seguono ed arricchiscono notevolmente la narrazione e che rappresentano tipicità cittadine, come banchetti, balli e musica, il «liston», ovvero la passeggiata di maschere in campo Santo Stefano, il tamburino mascherato, dipinto che si trova al Musée Carnavalet, a Parigi, il ridotto pubblico a Palazzo Dandolo, opera di Francesco Guardi, il ciarlatano e il cavadenti, la bottega ( o le botteghe) delle maschere, le acqueforti con una piazza San Marco affollata di gente in maschera, ma anche i tenui colori del pastello di Rosalba Carriera, la luce sfumata di Félix Ziem, la luminosità di William Wyld. Ovunque, nei musei europei e del mondo intero, si può trovare un quadro che, con la mente, rimanda a Venezia.
Un’eredità immateriale che tuttora dura, poiché Venezia, anche grazie a mecenati come Giorgio Cini e Giuseppe Volpi di Misurata e, attualmente, al francese François-Henri Pinault, si pone come punto di riferimento culturale in Europa e nel Mondo.
(Pubblicato il 13 maggio 2023 © «Storia GLocale» – Recensioni)