di Luca Riccardi
«Toscano è il miglior analista che abbiamo della storia diplomatica internazionale negli ultimi trent’anni». Così, il 21 ottobre 1948, Federico Chabod scriveva a Giulio Einaudi presentando l’opera dell’ancora giovane studioso piemontese che aveva manifestato l’intenzione di pubblicare con la casa editrice torinese quello che, forse, sarebbe stato il migliore dei suoi volumi: Guerra diplomatica in Estremo Oriente. Ma chi era Mario Toscano? Qual è stata la sua formazione culturale e come mai, sin da giovane, si era conquistato l’incondizionata stima dell’establishment storiografico italiano dell’anteguerra, nelle persone, in particolare, di Gioacchino Volpe e lo stesso Federico Chabod? A queste domande intende rispondere Luciano Monzali con il suo volume biografico Mario Toscano storico e intellettuale nell’Italia fascista, edito dall’Editoriale Scientifica nella bella collana diretta da Stefano Baldi.
Va innanzitutto detto che l’autore non è nuovo a imprese di questo genere: già nel 2011 aveva pubblicato un lavoro incentrato sull’importante ruolo che lo storico piemontese ebbe nell’azione internazionale dell’Italia del dopoguerra. Con questo libro compie un passo ulteriore, divenendo così, in maniera incontrastata, il biografo di Mario Toscano. E del biografo Monzali assume pienamente la veste. Pur non abbandonando lo stile analitico dello storico delle relazioni internazionali, infatti, riesce a penetrare l’uomo Toscano nella sua dimensione più individualmente esistenziale, collocandolo in maniera impeccabile nella complessità dell’epoca in cui si è formato, l’Italia fascista e poi anche ufficialmente antisemita.
Monzali non ha mai nascosto –basta avere letto la sua densa produzione- la sua ammirazione per il metodo storiografico di Mario Toscano. Soprattutto per l’utilizzo dei documenti, soprattutto diplomatici, come fonte indispensabile per la ricostruzione della politica internazionale delle potenze; ma anche per il suo accostamento progressivo a tutti quegli storici – i menzionati Volpe e Chabod, ad esempio – che negli anni tra le due guerre imposero alla storiografia italiana sviluppi di rilievo assoluto. E ne influenzarono, in maniera definitiva, con il loro “metodo”, la modernizzazione anche contribuendo alla nascita della storia delle relazioni internazionali di marca italiana. L’indirizzo degli studi di Toscano rappresentò una sintesi complessa della sua formazione giovanile fondata sulle conoscenze di diritto internazionale e una sempre più accentuata propensione alla ricostruzione storica della politica internazionale fondata sulla documentazione diplomatica e la memorialistica. Ancora oggi – in Italia, ma non solo – chiunque voglia studiare la politica estera italiana tra gli anni 1914-1945 non può non confrontarsi con gli esiti delle sue ricerche. E soltanto la morte prematura, nel 1968 – a sessant’anni – lo ha strappato da ulteriori sviluppi del suo lavoro. Il risultato più eclatante di questi suoi ultimi sforzi fu il volume edito da Laterza, pochi mesi prima della sua morte, dedicato alla questione dell’Alto Adige. Questa – oggi in parte sottovalutata – era in realtà determinante per il futuro della collocazione europea della giovane repubblica italiana e per le sue relazioni con il mondo tedesco.
Tutto ciò fece di lui, se non il fondatore, senz’altro il più brillante esponente di una generazione di intellettuali italiani che con i loro studi, “fecero” materialmente la storia delle relazioni internazionali (allora si chiamava storia diplomatica) in Italia. Con diverse nuances storiografiche, è vero; ma da Toscano sono stati influenzati numerosi storici, non solo delle relazioni internazionali, della sua generazione: Vedovato, Curato, Anchieri, Serra, Valsecchi, Mosca, Tamborra, solo per citarne alcuni. Hanno risentito dei suoi insegnamenti – anche soltanto per cercare di superarli – pure grandi storici della politica estera italiana della generazione successiva come Di Nolfo, Bariè, D’Amoja, Spadolini, André, Pastorelli, Filippone Thaulero (questi tre ultimi suoi allievi diretti). Lo stesso Renzo De Felice, nella redazione degli ultimi quattro volumi della sua monumentale biografia di Mussolini, lo prese come suo punto di riferimento interpretativo per ciò che riguardava alcuni fondamentali eventi politici come il Patto d’Acciaio e l’8 settembre. Ancora oggi, una terza generazione di studiosi, di cui l’autore fa parte, formatasi negli anni Ottanta-Novanta, lavora sugli stimoli storiografici e metodologici lasciati in eredità da Mario Toscano: la centralità dell’uomo (nel senso del fattore umano, anche individuale) nei processi politici; l’importanza della base documentaria della storiografia che rende le sue conclusioni certo non inoppugnabili, ma senz’altro più credibili. Cioè quei contenuti che, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, fecero di Mario Toscano e Federico Chabod un sodalizio culturale quasi inossidabile il cui contributo fu alla base del successo della storiografia internazionalistica di impronta liberale di quel periodo. E anche oggi, nonostante qualche sgangherato tentativo di ridimensionamento, la sintonia tra quei due intellettuali – che era fatta di stima, collaborazione, ma anche di amicizia e frequentazione personale – appare uno dei pilastri di riferimento per qualsiasi edificio di carattere storiografico costruito da chi voglia studiare la politica estera italiana e non solo.
Nel suo volume Monzali vuole far conoscere l’itinerario di formazione di questo storico nell’Italia fascista. Non nasconde certo la sua adesione convinta di giovane intellettuale al regime e la sua prospettiva di dare un contributo culturale alla “grandezza” di una potenza che il Patto di Londra aveva designato essere europea e mondiale; e quindi uscire dalle ristrettezze dell’età giolittiana dove lo slancio imperiale doveva essere contenuto a causa di un difficile equilibrio politico-parlamentare e una precaria condizione economica. L’ammirazione di Toscano per Sidney Sonnino – trasmessa ad alcuni suoi allievi, come Pietro Pastorelli – nasceva dall’interpretazione della politica di questo statista – al di là dei suoi limiti ed errori – fondata sulla coerenza del perseguimento del disegno di costruzione dell’Italia come grande potenza europea. E, dunque, come precursore di quella che – con toni, ideologia, mezzi e alleati differenti – Mussolini intese realizzare. La «Grande Italia», direbbe Emilio Gentile, era l’obiettivo che accomunava questi due leader – così diversi- dell’Italia dell’Otto-Novecento. E a quel modello di politica – che fino al 1922 si sarebbe potuta definire liberal-nazionale – si rifaceva non solo Toscano, ma diverse generazioni di italiani che credettero di vedere nel fascismo il regime che avrebbe riscattato il Paese dal suo destino di potenza mediocre in politica internazionale, debole sul piano economico e divisa partiticamente e ideologicamente. Politica e cultura sembrarono procedere di pari passo nell’esistenza di questo brillante giovane che sempre più si affacciava alla ribalta del dibattitto storico nazionale. Dal 1935 cominciò a riflettere, a partire dai suoi studi, sull’opportunità di dare vita a una «storia diplomatica della partecipazione dell’Italia alla Prima guerra mondiale e alle trattative di pace dal 1914 al 1920». Si può facilmente intuire come questa impresa storiografica volesse essere l’approfondimento culturale di sfondo alla politica imperiale del fascismo – che si voleva quella italiana – ritenuta denegata dalle grandi potenze europee, ma così popolare nell’opinione pubblica nazionale.
Le leggi razziste del 1938 – ironicamente, per lui, firmate anche dal suo maestro universitario, il Guardasigilli Arrigo Solmi – piombarono come un uragano nella vita del giovane intellettuale. A causa loro scoprì la damnatio dell’essere ebreo, anche se solo di «tre quarti». Non che prima non avesse avuto percezione di questa parte della sua identità, nonostante fosse stato battezzato: «l’attenzione verso il tema delle minoranze nazionali e religiose» in alcuni suoi studi mostrava «una sua sensibilità su tale questione anche dopo la conversione». In qualsiasi modo egli «non si considerava un ebreo quanto un italiano fascista di origini ebraiche». Da quel momento Toscano condivise con il resto degli ebrei italiani le «dure lotte per sopravvivere» in un regime antisemita. Per Toscano voleva dire cercare di rimanere fascista e italiano; ma anche di poter continuare la propria attività per raggiungere quello che era l’obiettivo principale della sua vita professionale: il conseguimento del titolo di professore ordinario nell’Università. L’importanza della sua famiglia nella città di Novara consentì, nel 1939, di ottenere l’«arianizzazione» e dunque di proseguire la carriera universitaria. Lo stesso non si può dire per quella politica che vide la sua definitiva «estromissione» dal PNF proprio a causa della sua origine ebraica.
Dal 1940, però, l’inasprimento della legislazione razziale tornò a minacciare la sua permanenza nei ruoli universitari. Ma soprattutto, a partire dal 1941, la «lotta per la vita» cui era costretto e l’«emarginazione» progressivamente impostagli – come a ogni ebreo italiano – lo spinse a cercare ogni mezzo per evitare conseguenze definitive. Qui il volume di Monzali tocca l’apice del suo interesse, poiché, attraverso la ricostruzione di un’esistenza individuale, ben disegna il profilo dell’ingiusta sofferenza che il regime mussoliniano impose a migliaia di italiani, in quanto ebrei, la gran parte convintamente fascisti, come Toscano. Questi fu costretto a sopravvivere grazie a collaborazioni storiografiche procurategli da amici intellettuali che, più o meno apertamente, si opponevano alle leggi razziali. E qui ritornano, ancora una volta, Gioacchino Volpe e Federico Chabod; ma anche i diplomatici Vittorio Cerruti, Giuliano Cora e Amedeo Giannini. In quegli anni di «disperazione e depressione» Toscano maturò una svolta intellettuale, ma anche esistenziale: «aveva ormai abbandonato una visione ideologica nazionalfascista per abbracciare sempre più posizioni storico-politiche di impostazione liberalconservatrice». L’abbandono del fascismo, dunque, avvenne per aver sperimentato direttamente la sua degenerazione. Il suo avvicinamento alla cultura liberale – che avrebbe contrassegnato tutto il resto della sua vita – fu confermato dall’incontro – nell’esilio in Svizzera dove si era rifugiato per sfuggire alla «caccia all’ebreo» in corso nell’Italia occupata dai nazisti – con Luigi Einaudi. Questo rapporto si sarebbe rivelato «cruciale» per il suo futuro nell’Italia liberata. Egli rientrò nell’Università e divenne uno dei più influenti intellettuali italiani in campo politico e diplomatico. E la sua storiografia, depurata dell’aspetto più ideologicamente fascista, divenne una componente rilevante della cultura italiana.
(Pubblicato il 1 ottobre 2024 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)