di Lorenzo Terzi
Il 12 settembre 1919 Gabriele d’Annunzio, ormai quasi sessantenne, occupò la città di Fiume, vi stabilì una dittatura provvisoria e costituì il Comando Militare di Fiume italiana, cui si sostituì, a partire dall’8 settembre 1920, la Reggenza Italiana del Carnaro, con lo stesso d’Annunzio quale Primo rettore e responsabile degli Affari esteri.
Con questa impresa, che lui stesso definì la sua «penultima ventura», il poeta volle tagliare il nodo gordiano delle rivendicazioni irredentiste di Fiume, frustrate dagli accordi italiani con la Triplice Intesa stipulati alla vigilia della Grande guerra.
Il 26 aprile 1915, l’Italia aveva firmato il Patto di Londra con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia. In base agli articoli 4 e 5 dell’accordo, in caso di vittoria avremmo ottenuto «il Trentino, il Tirolo meridionale, fino alla frontiera geografica e naturale, il Brennero, la città di Trieste, la contea di Gorizia e Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnaro, compresa Valosca e le isole istriane di Cherso, Lussin e anche le piccole isole di Plavnik, Unie, Canidole, Palazzuola, San Pietro dei Nembi, Asinello e le isolette vicine».
A questi territori si sarebbe aggiunta la Dalmazia, «includendo a nord Lisarica e Tribanj e a sud tutto il territorio fino ad una linea partente da Punta Planka sulla costa e seguendo verso est le alture formanti la linea spartiacque, in modo da comprendere nei territori italiani tutte le valli e i corsi d’acqua che scendono verso Sebenico», e ancora tutte le isole situate a nord e a ovest della Dalmazia, tranne Zirona Grande e Piccola, Buia, Solta e Brazza.
La vittoria mutilata
Al termine del conflitto, però, all’Italia fu riconosciuto solo l’acquisto del Trentino, dell’Alto Adige, della Venezia Giulia e dell’Istria occidentale.
Non vennero prese in alcuna considerazione le rivendicazioni italiane in Africa e in Albania, la conservazione di uno status quo mediterraneo favorevole e le possibilità di un’adeguata espansione territoriale nell’Adriatico settentrionale, nei Balcani, in Asia minore e nel Levante.
Il patto di Londra, per di più, assegnò sin dall’inizio il porto di Fiume alla Croazia.
Le reazioni italiane
Contro tale decisione si espressero esponenti di forze politiche contrapposte.
Il 30 dicembre 1919 il ministro degli Esteri Vittorio Scialoja, già primo delegato e consigliere tecnico alla Conferenza di pace di Parigi, pur ammettendo che il Patto non conteneva alcuna rivendicazione di Fiume da parte italiana, mise però in evidenza che la questione fiumana non poteva più essere posta negli stessi termini dell’accordo londinese, poiché «Non fummo noi che chiedemmo Fiume, fu Fiume che chiese sé stessa per l’Italia». Tale pretesa, concludeva Scialoja, non poteva non essere accolta dal governo italiano in nome di quei principi di nazionalità che erano stati proclamati a fondamento di tutte le trattative pre e postbelliche.
Dal fronte opposto Antonio De Viti De Marco, contiguo alla corrente antinazionalista di Gaetano Salvemini, aveva sposato la tesi di Fiume italiana in un intervento del 30 gennaio 1919.
Il 12 ottobre del medesimo anno perfino Giovanni Giolitti, nel discorso di Dronero sulle conseguenze economiche e politiche della partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra, lamentò la rinuncia a Fiume sancita nel Patto di Londra: «Alla grandezza della vittoria non corrisposero certamente le condizioni fatte all’Italia nelle trattative diplomatiche, ed è soprattutto doloroso al cuore di ogni italiano il rifiuto di riconoscere all’italiana città di Fiume il diritto di congiungersi alla madrepatria».
L’impresa di Fiume? Non fu (solo) una spacconata
L’impresa dannunziana aveva quindi radici ben salde nello Stato profondo italiano. Sembrerebbe pertanto errato, o almeno riduttivo e semplicistico, il giudizio espresso in maniera quasi unanime dalla storiografia del secondo dopoguerra, secondo cui l’espressione «vittoria mutilata» – coniata da d’Annunzio nella Preghiera di Sernaglia, comparsa sul Corriere della Sera nell’anniversario di Caporetto il 24 ottobre 1918 – e la stessa avventura di Fiume siano state una mera costruzione propagandistica del poeta, una vera e propria “trovata pubblicitaria” utile a favorire la discesa di d’Annunzio, impolitico per eccellenza, nella politica italiana.
L’impresa di Fiume secondo Di Rienzo
A quest’idea si ispira la monumentale monografia D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume (Rubbettino Soveria Mannelli) di Eugenio Di Rienzo, professore onorario di Storia moderna presso La Sapienza di Roma e direttore della Nuova Rivista Storica. Il lavoro di Di Rienzo si basa in gran parte su un folto insieme di fonti, finora del tutto ignorate dai precedenti studi, provenienti dall’Archivio Centrale dello Stato, dall’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli affari Esteri, dal Vittoriale degli Italiani e dai National Archives di Londra.
Questa narrazione vuole sprovincializzare le vicende dei 476 giorni della «penultima ventura», spingendo il lettore a non concentrarsi esclusivamente sugli eventi succedutisi nella città sulle rive del Quarnaro, ma a volgere lo sguardo verso la «guerra dopo la guerra» che all’indomani del novembre 1918 divampò da Belgrado a Vienna, Berlino, Praga, Atene, Tirana, Budapest, Bucarest, Ankara, Mosca, fino al Caucaso e all’Asia centrale, all’Egitto e all’Irlanda, e che condizionò le gesta del Poeta soldato. «Di quello smisurato incendio» scrive Di Rienzo «Fiume fu solo un focolaio dove si sviluppò la contesa tra il revanscismo dell’“ultima delle grandi potenze”, reduce dall’umiliazione di una “vittoria mutilata”, e l’“imperialismo straccione” del neonato Stato degli Slavi meridionali».
E d’Annunzio scrisse a Lenin: Fiume è tua
È certo che la questione fiumana rappresentò una spina nel fianco della strategia internazionale dei vincitori della Conferenza di Parigi, ancora alle prese con la guerra civile russa e i conflitti esterni e interni che infiammarono, fin altre l’autunno del 1922, l’Europa orientale, l’Anatolia, il Caucaso e il Medio Oriente.
Ciò che spaventò maggiormente le cancellerie europee fu la minaccia di un’alleanza del Corpus separatum di Fiume con la Russia bolscevica. In effetti questa possibilità fu presa molto sul serio da osservatori affidabili come il generale Enrico Caviglia, Commissario straordinario per la Venezia Giulia, il quale arrivò a sostenere che «a Fiume, dove d’Annunzio e i suoi Legionari vivevano in istato di ribellione si rivolsero le speranze del partito anticostituzionale e anarchico» e che «soprattutto Lenin sperò in Fiume come un punto di partenza per una rivoluzione in Italia».
D’altra parte, è vero che il Vate, negli ultimi giorni della Reggenza del Carnaro, inviò a Lenin un telegramma in cui auspicava la piena intesa fra la Reggenza e la Repubblica sovietica e metteva a disposizione di Mosca lo spazio marittimo e gli scali di Fiume per qualunque operazione commerciale o diplomatica.
Di Rienzo: fu un colpo di scena, non un abbraccio ai “rossi”
Tale atto però – avverte Di Rienzo – era da considerarsi unicamente come l’ennesimo colpo di teatro della scenografica diplomazia dannunziana, e non certo come una conversione, in limine mortis, dell’impresa fiumana al credo comunista. La public diplomacy del poeta causò in ogni caso scompiglio sullo scacchiere internazionale: i report del Directorate of Intelligence britannico espressero chiaramente la preoccupazione che il governo provvisorio fiumano – e per suo tramite quello di Roma – intendesse servirsi della propaganda bolscevica per attentare alla stabilità dell’impero di Giorgio V, in modo da portare avanti una spregiudicata politica balcanica in funzione filoitaliana.
Effettivamente il capitano Giovanni Battista Giuriati – fervente irredentista, medaglia d’argento della Grande Guerra e, fino al 19 dicembre 1919, capo di Gabinetto del Comando di Fiume – giunse a Parigi in qualità di inviato personale di d’Annunzio per esporre «le aspirazioni della Città prima che la Conferenza si pronunci sul suo destino».
La richiesta venne respinta, a causa delle resistenze del presidente del Consiglio italiano Francesco Saverio Nitti, e soprattutto della ferrea opposizione del Primo ministro francese Georges Clemenceau, allora presidente della Conferenza di Parigi. Ciò non impedì tuttavia a Giuriati di porre con successo le basi di un comune patto d’azione fra tutti i popoli defraudati dalle decisioni del summit di Versailles, che trovò buona accoglienza presso il rappresentante egiziano Saad Zaghlul Pascià e quello irlandese Seán Tomás Ó Ceallaigh.
Una rivoluzione a metà: la Carta del Carnaro
Nelle intenzioni di d’Annunzio, in definitiva, la battaglia per Fiume doveva rappresentare il pretesto per la chiamata a raccolta di tutti i vinti della guerra: Arabi, Indiani, Cinesi, Irlandesi, Turchi, Egiziani, Bulgari, Ungheresi e Russi. E di coloro (italiani e nipponici) che in quel conflitto avevano investito risorse e uomini fino allo spasimo senza ricevere il compenso adeguato.
La natura eversiva dell’esperimento dannunziano emergeva, fra l’altro, anche da quella che Di Rienzo definisce felicemente «ingegneristica istituzionale»: la Costituzione di Fiume, ovvero Charta Quarnerina, si presentava come un ordinamento giuridico rivoluzionario, per la sua prospettiva universalista, per l’inedita attenzione al lavoro e alla socialità, alle prerogative civili e materiali, per l’affermazione della funzione sociale della proprietà, per il riconoscimento dei maggiori diritti dei produttori e il decentramento dei poteri dello Stato.
Lo stesso Di Rienzo, però, mette in guardia sui limiti di questa esperienza costituzionale: la Charta Quarnerina, pur tenendo nel debito conto il suo carattere «libertario» e «sovversivo», non modificò in nulla ma anzi istituzionalizzò «lo schietto carattere autocratico del reggimento di Fiume Italiana».
I poteri forti con d’Annunzio
Le inquietudini dei gabinetti europei erano accresciute soprattutto dalla consapevolezza di un fatto spesso ignorato dagli interpreti dell’episodio fiumano.
Costoro non si sono mai chiesti se davvero il Comandante portò a termine la conquista della «città di passione» navigando in solitaria, accompagnato soltanto da un manipolo di animosi e fedeli seguaci.
Invece – come avevano compreso i servizi segreti inglesi, e come sostiene senza riserve Di Rienzo – il «bel gesto» del poeta fu ispirato e reso possibile dal concorso di poteri forti, economici e finanziari, e di vari gruppi di pressione a volte difficilmente etichettabili a livello politico. Questi andavano dalle fratellanze massoniche di varia e incerta provenienza, da ampi settori dello Stato visibile (Forze Armate, agenzie di intelligence, apparato burocratico, spezzoni del Governo), alla grande e media stampa, schierata o presunta indipendente.
Fra queste ultime voci spicca quella del direttore del Popolo d’Italia, e futuro duce del fascismo, Benito Mussolini, che all’inizio appoggiò, anche finanziariamente, la causa di Fiume.
Il Trattato di Rapallo
L’intesa con d’Annunzio durò fino al novembre del 1920, quando Mussolini diede pubblicamente il suo assenso al Trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre, ratificato dal Regno serbo-croato-sloveno il 20 di quel mese e approvato dal Regno d’Italia con la legge n. 1778 del 19 dicembre successivo.
Gli accordi stabilirono il confine tra i due paesi sulle Alpi Giulie, assegnarono alla Jugoslavia la Dalmazia e la porzione maggioritaria del suo arcipelago, mentre attribuirono all’Italia Zara e le isole di Cherso e Lussino, insieme con Lagosta e Pelagosa.
Il Trattato, inoltre, dichiarava Fiume Stato indipendente: con esso però, come ricorda Di Rienzo, di fatto si ponevano le basi per la futura annessione della città all’Italia, conseguita poi attraverso il lungo cammino segnato dal Trattato di Roma (27 gennaio 1924) e dagli Accordi di Nettuno (20 luglio 1925).
A cercar la bella morte: prove tecniche di guerra civile
Nell’immediato, tuttavia, gli accordi italo-jugoslavi risuonarono come campane a morto per la Reggenza Italiana del Carnaro.
Giovanni Giolitti, tornato alla Presidenza del Consiglio, aveva dimostrato un attento e particolare interesse, durante i preliminari della Conferenza di Rapallo, per la sicurezza del confine italiano orientale.
In tal senso era orientato anche il ministro degli Esteri Carlo Sforza, che mosse tutte le leve della sua diplomazia occulta per agire sul direttore del Popolo d’Italia, in modo da prevenire ulteriori colpi di coda del Vate dopo l’occupazione di Veglia e Arbe avvenuta il 13 novembre, e soprattutto – precisa Di Rienzo – «per impedire che l’onda lunga del ribellismo fiumano arrivasse a toccare il litorale di Ancona per tracimare poi sulle sponde del Tevere».
Ma il Comandante fu irremovibile: i suoi interventi oratori si fecero sempre più bellicosi, inneggianti al culto del sangue versato nella «buona battaglia», alla necessità del sacrificio estremo, all’abbraccio con la «bella morte». Il poeta si preparava, così, ad affrontare un conflitto «italo-italiano» destinato a sconfitta certa, che avrebbe potuto essere evitata solo grazie a un soccorso che giungesse dall’Italia, e che invece non arrivò.
Il Natale di sangue: bombe italiane sui Legionari
Il 24 dicembre 1920 – «Natale di sangue», come lo ribattezzò lo stesso d’Annunzio – il generale Caviglia ordinò al comandante della 45ª Divisione Carlo Ferrario di occupare l’antemurale Monte Guardia-Grobovo e di prendere il controllo del campo di aviazione di Grobnik, con l’ordine di usare le armi solo in caso di attacco, per poi riprendere l’avanzata generale in modo da penetrare rapidamente a Fiume.
I Legionari fiumani opposero resistenza e risposero tenacemente al fuoco, tanto che Caviglia fu costretto a far bombardare dalla nave da battaglia Andrea Doria alcune caserme, il gasometro, i depositi e le officine dei moli, e perfino il Palazzo del Governo.
Preso atto dell’insostenibilità della situazione e considerate le perdite umane causate da quel conflitto civile, il 29 dicembre successivo il Vate, nel corso di una riunione plenaria del Consiglio di Reggenza, si dichiarò infine disposto a lasciare la città e a sciogliere il Governo.
Il 31 dicembre, presso il comando della 45ª Divisione, venne siglato l’accordo poi comunemente denominato Trattato di Abbazia. In quello stesso giorno d’Annunzio prese congedo dai suoi Legionari col lo stentoreo Alalà funebre.
Fine della storia: d’Annunzio come Cesare Borgia
Si abbassava, così, definitivamente il sipario della storia sul palcoscenico della «bella impresa» fiumana.
In un’informativa della fine di gennaio 1921, contenuta nella rassegna mensile del Directorate of intelligence inglese e citata da Eugenio Di Rienzo nelle ultime pagine della sua imponente monografia, si rendeva omaggio al valore dei volontari fiumani e si constatava non senza acume che d’Annunzio, al quale non era stato risparmiato l’epiteto di legittimo erede di Cesare Borgia, «era stato liquidato dopo aver offerto al suo Paese il grande servigio di aver costruito con la sua impresa una valvola di sfogo al movimento nazionalista che altrimenti avrebbe potuto dar vita in Italia a un Colpo di Stato o a una temibile insurrezione».
(Pubblicato il 18 settembre 2024 © «L’IndYgesto» – IndYbooks)