di Valentina Sommella
Il nuovo libro di Eugenio Di Rienzo, Un’altra Resistenza. La diplomazia italiana dopo l’8 settembre 1943, edito da Rubbettino Editore ci restituisce una pagina importante della nostra diplomazia, quella della resistenza del corpo diplomatico dopo l’Armistizio di Cassibile, resa possibile anche grazie all’azione di Renato Prunas, nominato Sottosegretario agli Esteri dell’«Italia del Re» nel novembre 1943.
Con questa su ultima fatica Di Rienzo colma una lacuna nella storiografia italiana che, nonostante alcune significative eccezioni, può vantare un numero limitato di studi sulla storia della diplomazia, tra cui in particolare i lavori di Fabio Grassi Orsini e di Luigi Vittorio Ferraris, ai quali il volume è dedicato, e, più recentemente, quello di Gerardo Nicolosi sulla Diplomazia liberale egualmente pubblicato per i tipi di Rubbettino.
Un’Altra Resistenza si inserisce dunque in questo filone e ne emergono molte suggestioni e spunti interessanti in quanto attraverso lo studio e la riflessione sull’azione politica di alcune figure di diplomatici, Di Rienzo riesce a tracciare un quadro documentato delle scelte compiute all’indomani della resa incondizionata italiana. Ne emergono ad esempio le attese, le ambiguità e le responsabilità del sovrano Vittorio Emanuele III e i limiti di Badoglio a cui, come ha sottolineato anche Elena Aga Rossi nel saggio Una nazione allo sbando, per ben due volte in momenti decisivi per la politica interna ed estera italiana, i destini dell’Italia erano stati affidati. Perché, a Caporetto. alla vigilia di Cassibile e al momento dell’offensiva tedesca su Roma, il Duca di Addis Abeba non fu all’altezza degli incarichi assegnatigli.
Ma anche emergono l’attendismo e l’inadeguatezza di Raffaele Guariglia, diplomatico napoletano di lungo corso nominato ministro degli Esteri del governo Badoglio subito dopo il 25 luglio – «the wrong man in the wrong place», lo definisce Di Rienzo in quanto incapace di gestire la transizione dell’8 settembre, durante la quale le sedi diplomatiche italiane furono tenute all’oscuro delle trattative armistiziali. Di Rienzo cita il passo dei Ricordi di Guariglia in cui egli giustificò tale mancanza con la necessità della segretezza di queste trattative. Ciò però comportò che il corpo diplomatico italiano all’estero fosse totalmente impreparato all’evoluzione degli avvenimenti che seguirono all’annuncio dell’armistizio da parte di Eisenhower. Pochi giorni dopo il comunicato radiofonico del Comandante in capo delle forze alleate nel teatro del Mediterraneo, Guariglia, inoltre, preoccupato per la sua incolumità, lasciò il Ministero degli Esteri e si rifugiò con la moglie nell’ambasciata spagnola presso la Santa Sede, dove sarebbe rimasto per 9 mesi, fino alla liberazione della capitale nel giugno del ’44.
Dopo la fuga partenza del re e di Badoglio per Brindisi, alle nostre missioni diplomatiche le notizie arrivavano frammentarie anche perché ogni comunicazione doveva passare sotto il vaglio e la censura degli Alleati per poi essere trasmesse alla Regia Ambasciata di Madrid che fungeva da centro di smistamento, dove il capo missione Giacomo Paulucci di Calboli stato incaricato dal Governo di Brindisi di fungere da punto di contatto con rappresentanze italiane nei territori occupati o controllati dall’Asse. Compito che egli svolse con grande energia, nonostante gli ostacoli frapposti dal regime franchista, combattendo quella che Di Rienzo definisce una vera e propria «battaglia» per la difesa degli interessi nazionali.
Dopo la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, a metà settembre del ’43, fu specificato da una nuova agenzia di stampa creata ad hoc che coloro che non avessero ripreso le loro funzioni avrebbero perso l’immunità diplomatica e sarebbero stati detenuti come «civili appartenenti a Nazioni ostili» non solo in Germania e in Giappone, ma anche nelle Nazioni occupate da Berlino e da Tokyo, nei Paesi che avevano sottoscritto il Tripartito (Bulgaria, Repubblica slovacca, Romania, Croazia, Ungheria) e nei Paesi occupati e collaborazionisti, come la Francia di Vichy, la Serbia, la Norvegia e la Grecia.
I diplomatici italiani che erano stati nominati in quelle sedi furono obbligati a scegliere quale dei due governi volessero rappresentare, se quello della King’s Italy o quello repubblicano di Salò. Così avvenne ad esempio a Budapest dove la legazione si scisse in quanto l’ambasciatore Filippo Anfuso scelse Salò («Duce con voi fino alla morte! Comandate!»), mentre il Primo Segretario Carlo de Ferrariis Salzano optò per Brindisi, come fece la maggior parte dei diplomatici italiani all’estero.
La decisione di de Ferrariis di non seguire le direttive del suo diretto superiore Anfuso implicò il trasferimento di de Ferrariis e della maggioranza del personale in servizio presso la legazione magiara in un’altra sede sita in Lisnyay utca, la quale il governo ungherese intese mantenere un rapporto cordiale, giudicandolo un prezioso canale di comunicazione con le Nazioni Unite nell’eventualità di un abbandono dell’alleanza con la Germania. Proprio per impedire una defezione ungherese ed un eventuale «8 settembre magiaro», le truppe tedesche occuparono l’Ungheria nel marzo 1944 e i membri della legazione badogliana furono imprigionati prima a Budapest, poi in Austria e infine in Italia. Dall’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone, situato nella periferia di Milano, de Ferrariis e alcuni collaboratori riuscirono infine ad evadere e, attraversando l’Italia del Nord, raggiunsero Roma liberata un anno dopo il loro internamento.
Di Rienzo rileva come soltanto una minoranza dei nostri agenti diplomatici, circa un quarto del personale in servizio, optò per la fedeltà alla Repubblica fascista. Furono in prevalenza i cosiddetti “ventottisti” ad aderire al risorto regime mussoliniano ovvero quel personale che era entrato nella carriera, in seguito alle nuove forme di reclutamento varate da Dino Grandi e poi perfezionate da Ciano, grazie alle quali fu possibile ampliare le fila dei diplomatici italiani senza concorso, reclutando numerosi nuovi funzionari di fede fascista entrati in carriera per meriti politici o perché rimasti esclusi dalle liste elettorali fasciste o da cariche amministrative.
La sorte dei diplomatici badoglisti alla quale cui Di Rienzo dedica un lungo capitolo conclusivo del volume, si fece ancora più drammatica nella «Grande sfera di prosperità collettiva dell’Asia Orientale» dominata dall’Impero di Hirohito e naturalmente a Tokio. La reazione del Gaimushō alla firma del protocollo di Cassibile fu infatti durissima: una nota del Ministro degli Esteri Mamoru Shigemitsu condannò il comportamento italiano, reputandolo «un atto di tradimento» rispetto all’impegno preso dall’Italia di proseguire le ostilità fino alla conclusione del conflitto. Le autorità giapponesi reagirono, infatti, con spietate misure punitive nei confronti degli italiani (sia diplomatici, che militari e civili) che si allinearono con il governo di Badoglio. Si trattò di ritorsioni disumane, illegittime alla luce diritto internazionale che diedero luogo a un “calvario italiano” che è meno noto rispetto al dramma della guerra civile ma altrettanto straziante e a cui il volume di Di Rienzo dà il giusto rilievo.
Dopo il riconoscimento della Repubblica Sociale di Salò da parte del Governo Tōjō, tutti gli italiani sotto giurisdizione nipponica furono costretti a scegliere fra il fascismo e la monarchia, fra Mussolini e Badoglio. La maggior parte della nostra rappresentanza diplomatica, compreso l’ambasciatore Mario Indelli, non aderì a Salò. E decisero di sopportare le vessazioni nipponiche pur di non riconoscere la legittimità del regime fascio-repubblicano. La maggior parte della missione diplomatica corpo diplomatico venne quindi subito arrestata con le famiglie e internata in condizioni di estrema precarietà sia dal punto di vista alimentare che sanitario.
La loro situazione si aggravò ulteriormente dopo la dichiarazione di guerra italiana al Giappone nel luglio del ’45: quando i nostri connazionali in stato di detenzione furono da quel momento considerati «rappresentanti di una potenza nemica», Di Rienzo ripercorre infatti nel dettaglio non soltanto le vicende di Indelli e dei suoi compagni di sventura ma anche quelle di Francesco Taliani De Marchio, ambasciatore a Shanghai, che venne inizialmente recluso nella sua residenza e poi incarcerato, insieme alla consorte e ai suoi sottoposti, prima nel baraccamento di Hongqiao e poi nel campo di Rubicon Road, dove fu sottoposto ad un umiliante prigionia, descritta nelle sue memorie, pubblicate nel 1949 e di cui Di Rienzo riporta alcuni passaggi molto forti.
Molto toccante è anche il messaggio che Taliani rivolse al nuovo presidente del Consiglio De Gasperi nel marzo del 1946 e che Di Rienzo riporta a conclusione del volume: nonostante la lunga prigionia in Cina, l’ambasciatore non volle abbandonare il suo posto e si adoperò quindi per il rimpatrio del personale diplomatico e consolare ancora di stanza a Shanghai e nel resto del Paese asiatico, ove rimase soprattutto con l’obiettivo di normalizzare le relazioni italo-cinesi. Dalla Cina l’anziano Taliani De Marchio rivolse a De Gasperi un messaggio di speranza che auspicava un “risorgimento”, dell’Italia dopo le barbarie della Seconda guerra mondiale. Barbarie di cui molti nostri diplomatici non furono soltanto osservatori privilegiati, come avrebbe voluto la normativa internazionale, ma vittime inerme sottomesse alle violenze fisiche e ai soprusi psicologici dei loro aguzzini come ci viene rivelato nei dettagli dall’autore di Un’altra Resistenza.
(Pubblicato il 3 marzo 2025 © «Storia GLocale» – Recensioni)