La formula «due popoli due Stati» comporta una serie di garanzia a cominciare dall’assoluta sicurezza dello Stato ebraico
di Ernesto Galli della Loggia
Nella discussione politica italiana una merce sempre assai rara è il realismo: cioè la conoscenza dei fatti e della loro storia, l’analisi obiettiva degli interessi in gioco, la valutazione delle soluzioni concretamente possibili fondata sui due fattori ora detti. Da noi, invece, specialmente quando si tratta di politica estera, al realismo si preferisce di gran lunga il tifo. Avviene così che quando a proposito della questione israelo-palestinese ci si trova tutti d’accordo nell’idea che la soluzione da perseguire dovrebbe essere quella dei «due popoli due Stati», pochissimi però si fermino a riflettere circa ciò che davvero implica tale formula, le reali condizioni che possono renderla praticabile. Che è innanzi tutto una: la garanzia assoluta della sicurezza di Israele. Senza di che è del tutto impensabile che lo Stato ebraico possa mai accettare l’esistenza di uno Stato palestinese.
Tanto più oggi, dopo quanto è accaduto il 7 ottobre quando Israele, cioè, ha dovuto rendersi conto della fragilità di quello che fino ad allora era un caposaldo assoluto della propria strategia politico-militare: vale a dire la convinzione della propria sostanziale invulnerabilità rispetto a un attacco convenzionale da parte araba. Il pogrom di quel sabato ha dimostrato, viceversa, che a determinate condizioni Israele può essere attaccata con successo da forze convenzionali. Proprio per ciò uno Stato arabo ai propri confini — quale per l’appunto era di fatto Gaza e sarebbe qualunque Stato palestinese — rappresenta comunque per essa una minaccia mortale e dunque inaccettabile.
Questo è il fatto nuovo e gravissimo accaduto quel giorno: ma quanti sono in Italia coloro che se ne sono accorti? Stando così le cose, oggi il solo modo per l’Occidente di essere dalla parte della formula «due popoli due Stati», di crederci realmente e non a chiacchiere, è quello: a) di informare solennemente i palestinesi per primi e il mondo arabo in generale che il riconoscimento senza se e senza ma dell’esistenza di Israele, cioè la rinuncia a cancellare quella che essi chiamano «l’entità sionista», costituisce una condizione sine qua non: sia per la nascita di uno Stato palestinese, sia per ogni accordo generale riguardante la regione. Tutto il resto può essere discusso ma questo no; e b) eventualmente di farsi esso per primo, l’Occidente, garante dell’esistenza di Israele nel solo modo che conta, cioè sul piano militare: ad esempio sottoscrivendo qualcosa di vincolante come l’art. 5 del Patto Atlantico, in forza del quale un attacco a Israele equivarrebbe a un attacco a noi tutti. Sarebbe interessante sapere quanti sono qui e in Europa, e anche negli Usa, coloro disposti a dirsi d’accordo. Anche perché in realtà in tutti questi anni l’Occidente, sia pure senza rendersene ben conto, ha indirettamente alimentato la minaccia anti israeliana. Lo ha fatto finanziando massicciamente l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, l’Unrwa. Ora, i cosiddetti profughi palestinesi sono cresciuti da sei settecento mila al momento della nascita di Israele a oltre cinque milioni oggi. Ciò è accaduto perché è considerato tale — cito dai documenti dell’Unrwa — anche «chi discende dalle persone divenute profughe nel 1948 indipendentemente dalla loro residenza nei campi profughi». Cioè, se capisco bene, si è considerato «profugo palestinese» con relativo diritto all’assistenza da parte delle Nazioni unite anche se, mettiamo, si abita tranquillamente con la propria famiglia in un appartamento di Beirut o di Amman. Come si legge su Wikipedia, «si tratta di una grande eccezione alla normale definizione di rifugiato». Non c’è dubbio. Una grande eccezione e direi anche una vera bizzarria: è come se in Italia esistessero ancora i «profughi giuliani» e fossero considerati tali e assistiti dallo Stato i figli o i nipoti di quelli cacciati dall’Istria o dalla Dalmazia nel 1947-50. Tanto più la cosa appare bizzarra in quanto in grande maggioranza questi «profughi palestinesi» sono nati e oggi vivono in territori (come Gaza o la Cisgiordania) retti da un’amministrazione anch’essa palestinese e quindi territori sostanzialmente palestinesi.
È evidente però il fortissimo e insidioso significato politico che hanno avuto e continuano ad avere questi milioni di «profughi», una parte consistente dei quali ammassati in campi come quelli presenti a Gaza. La loro semplice esistenza serve, infatti, a tenere aperta, e ad alimentare la «questione palestinese». Serve esplicitamente a mantenere viva l’idea della possibilità/necessità di un ritorno di codesti «profughi» nei luoghi d’origine o presunti tali. E dunque a giustificare nei decenni la lotta per ottenere un tale ritorno delegittimando con ciò stesso l’esistenza di Israele, ponendo un’ipoteca continua su tale esistenza. Altro che «due popoli due Stati»! Come può mai essere compatibile la soluzione della quale da sempre si fa paladino l’Occidente con il fatto di continuare a finanziare in ogni modo l’attore della scena che con la sua sola esistenza contraddice tale soluzione, alimenta incessantemente ogni azione per renderla impossibile dal momento che dei due Stati in questione si prefigge la scomparsa di uno di essi? Un’altra domanda scomoda destinata ad attendere inutilmente una risposta.
(Pubblicato il 18 febbraio 2024 © «Corriere della Sera» – Opinioni)