di Eugenio Di Rienzo
Il 18 settembre 1995, sulle colonne della «Corriere della Sera», Leo Valiani scriveva una memorabile recensione dedicata al volume “Rosso e Nero”, dove Renzo De Felice invitava a compiere una radicale revisione della storiografia della Resistenza, della quale qui riproponiamo il passo centrale.
«De Felice ha ragione di dire nel suo ultimo libro, redatto in forma d’intervista concessa a Pasquale Chessa, che “ridurre gli avvenimenti del 1943-45 alla contrapposizione antifascismo-fascismo e alla lotta armata tra la Resistenza e la Repubblica Sociale Italiana non è in sede storica sufficiente”. In realtà, i comunisti hanno potuto sviluppare la loro egemonia culturale, fornendo una lettura fuorviante di questi eventi, perché gli altri partiti, e gli esponenti non comunisti o non filocomunisti della cultura – ai quali Luigi Salvatorelli, rimproverò ciò fra i primi – hanno lasciato loro, per lunghi anni, il quasi monopolio d’una causa giusta: quella dell’antifascismo e della Resistenza. Certo, la grande maggioranza dei confinati politici e dei condannati dal Tribunale fascista, così come dei volontari antifascisti italiani nella Guerra di Spagna, e la maggioranza relativa dei partigiani della Resistenza furono militanti del Partito comunista o suoi simpatizzanti. Ma numerosi resistenti antifascisti, liberali, monarchici, cattolici, accanto a reparti del Regio Esercito, Carabinieri, Guardie di Finanza, funzionari statali, non erano comunisti e combatterono la dittatura fascista con coraggio e tenacia non minori e talvolta con risonanza maggiore. Avevano seguito di militanti più ristretto, ma quando ci si trova in condizioni disperate, alle prese con una dittatura strapotente, quale quella fascista era, o sembrava essere, il combattere in pochi un merito, non un demerito. Nella Resistenza, poi, il Partito d’Azione, per seguito di partigiani combattenti non fu tanto distante dal Partito comunista, come apparve dopo la liberazione».
Prima ancora del «j’accuse» di Valiani, alcune delle lacune indicate nell’articolo del quotidiano di via Solferino, si erano comunque colmate, seppur in modo molto insoddisfacente, grazie al saggio di Claudio Pavone del 1991 e precedentemente a quello di Giovanni De Luna, comparso nel 1982 e nuovamente edito nel 2021. Molto, però, resta ancora da fare, oggi, nel primo ventennio del terzo millennio per arrivare a una lettura completa di questo evento. Certo, dopo la pioneristica indagine di Alessandro Natta, redatta nel 1954 ma pubblicata non casualmente solo nel 1967, e quella di Sergio Cotta edita nel 1977, si è restituito tutto il suo valore alla resistenza del Regio Esercito con i suoi circa 12.000 caduti nella lotta di liberazione e i più di 238.000 deceduti, per esecuzioni sommarie, per denutrizione, per spietate vessazioni nell’inferno dei lager nazisti, o per gli insostenibili ritmi di produzione dei complessi industriali tedeschi nei quali erano impiegati come schiavi. Ma ancora oggi gli unici contributi complessivi dedicati alla resistenza liberale si riducono sostanzialmente quelli di Eugenio Artom, Fabio Grassi Orsini, Gerardo Nicolosi e Paolo Varvaro.
Mentre terra incognita della ricostruzione storiografia è rimasto l’eroico contributo al «secondo Risorgimento» degli uomini della nostra diplomazia che, abbandonati al loro triste destino dal Governo del Re, senza istruzioni e senza nessun preavviso dell’armistizio reso pubblico, l’8 settembre 1945, rifiutandosi di aderire al fascismo morto e resuscitato, pagarono fino al termine del conflitto, dalla Germania, al Giappone, alla Spagna, agli «Stati Marionetta» della dittatura nazista e dell’Impero Nipponico, al Grande Spazio danubiano-balcanico, alla Turchia, alle Repubbliche dell’America meridionale, un altissimo prezzo, pur di non ammainare nelle loro Ambasciate e Legazioni il tricolore sabaudo e di sostituirlo con quello in cui si accampava la torva aquila della Repubblica Sociale Italiana.
Il loro volontario martirio è stato, infatti, strumentalmente cancellato dalla memoria dell’Italia repubblicana, dalla quale è stato rimosso il ricordo delle drammatiche vicende di questi resistenti senza armi. Alcuni dei quali, al termine della loro missione, furono persino radiati dai quadri della «carriera», con l’accusa, menzognera nella più parte dei casi, di essere stati «gerarchi fascisti e diplomatici di Mussolini», imputata loro dall’Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, dove la responsabilità della sezione dedicata all’epurazione dei funzionari dello Stato fu affidata prima a Mauro Scoccimarro e poi a Eugenio Reale, ambedue esponenti di punta del Partito Comunista Italiano.
Nel martirologio dei caduti dell’«altra Resistenza» opposta dai nostri diplomatici al regime di Salò figurano solo: Roberto Bagli, ucciso in combattimento in Corsica, il 13 settembre 1943, Filippo de Grenet, entrato a far parte del Fronte Militare Clandestino di Roma, fucilato, il 24 marzo 1944, alle Fosse Ardeatine, insieme al Colonello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Attilio Perrone Capano caduto, il 3 gennaio 1945, durante il tentativo di oltrepassare la Linea Gotica per raggiungere l’Italia libera. Ma molti altri protagonisti di questa tormentata epopea si dovrebbero aggiungere a quell’elenco. Incaricati d’Affari, Segretari, Consoli, Addetti militari, Addetti stampa e Addetti culturali, umili impiegati d’Ambasciata messi a morte al momento della loro cattura, deceduti per maltrattamenti, insopportabili sforzi fisici imposti dal regime di «annientamento attraverso il lavoro punitivo», malattie, insufficiente alimentazione, nei campi di concentramento e negli ergastoli della Germania, della Polonia, del Giappone, della Repubblica collaborazionista di Nanchino, della Bulgaria, della Romania, dell’Ungheria. E degli Stati satelliti dell’Asse, dalla Croazia, alla Serbia, alle Filippine, alla Thailandia, alla Birmania, al Manciukuò, comprensivo della Manciuria e di parte della Mongolia interna, retto, per conto di Tōkyō, dal dummy Government di Pu Yi, l’ultimo Imperatore cinese della dinastia Qing.
Quelle morti e quelle sofferenze non furono però inutili. Come il 25 aprile 1944, Badoglio riferiva al Consiglio dei Ministri del Governo, trasferitosi dall’11 febbraio a Salerno, con una sintetica relazione sullo stato della politica estera dell’Italia del Re, dove il dolce si mescolava all’amaro. A poco più di otto mesi dalla catastrofe dell’8 settembre, quando si era potuto ipotizzare che il nostro Paese sarebbe scomparso dalla carta geografica europea come organismo politico sovrano, Badoglio sosteneva, infatti, con giusto compiacimento che questo evento non si era verificato.
Previa autorizzazione degli Alleati e grazie al dinamismo del nostro personale d’Ambasciata, si era riusciti, infatti, a mantenere ininterrotte e spesso cordiali relazioni diplomatiche con una parte consistente delle Nazioni estranee al conflitto. Né, pur tra mille difficoltà, quelle relazioni si interruppero, fino al maggio 1944, con la Finlandia, impegnata, dopo il 25 giugno 1941, nella cosiddetta «Guerra di continuazione» contro la Russia che la rendeva di fatto cobelligerante con la Germania. Né vennero meno con la Romania e con l’Ungheria, che solo dopo il successo dell’«Operazione Margarethe» lanciata dalla Wehrmacht, il 19 marzo 1944, e alla conseguente presa di potere del «Quisling magiaro» Döme Sztójay, aveva cessato i suoi tentativi di denunciare l’alleanza con Berlino.
Era questo un successo, pressoché inimmaginabile nelle settimane che avevano seguito la proclamazione dell’armistizio, al quale si sommava il raggiungimento del risultato di aver in buona parte stornato il pericolo di una possibile adesione alla Repubblica social-fascista delle nostre rappresentanze diplomatiche, accreditate a Berlino, a Tokyo e negli Stati fantoccio a loro sottomessi, ottenuto grazie allo spirito di sacrificio dei loro membri che avevano anteposto la fedeltà allo Stato legittimo alla possibilità di sfuggire a un lungo e travagliato periodo d’internamento che per alcuni di loro si concluse solo dopo il 2 settembre 1945.
«Senza aver la pretesa di fare in questa sede un esauriente resoconto di politica estera, vorrei ricordare come tutti i Paesi neutrali – Repubbliche americane, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e Turchia – hanno in seguito all’armistizio, e nonostante le vicende che hanno portato alla creazione, sotto l’ombra delle baionette tedesche, del sedicente Governo Repubblicano Fascista, continuato a riconoscere il Governo del Re come l’unico legittimo Governo italiano. Comprensione e solidarietà trovammo anche – nelle nostre ore più tragiche – presso il Governo di Bucarest e quello di Budapest il quale, sino al giorno della sua recente completa sopraffazione da parte della Germania, continuò nonostante le pressioni di Berlino, a riconoscere il Governo dell’Italia libera e i suoi rappresentanti diplomatici. Né è senza profonda afflizione che abbiamo assistito alle tragiche vicende successive al colpo di mano tedesco del 19 marzo, che ha provvisoriamente eliminato l’Ungheria dal novero delle Nazioni libere. Non è superfluo sottolineare che tutti questi risultati – che sono qui soltanto accennati, ma che si presterebbero ad ampi svolgimenti – sono stati ottenuti con un minimo di possibilità materiale: le condizioni di armistizio ci hanno infatti tolto, in questo come in altri campi, pressoché ogni mezzo per attuare una politica estera autonoma: e cioè totale assenza di informazioni, controllo minuto delle poche e rare e lente comunicazioni coi nostri rappresentanti all’estero, insuperabili difficoltà per l’invio di uomini e di mezzi. Con grande soddisfazione mista, però, a profondissima amarezza devo inoltre aggiungere che molti dei nostri funzionari diplomatici e consolari è stata reclusa in campi di concentramento dal Terzo Reich, dall’Impero nipponico e dai loro Stati vassalli non avendo voluto giurare fedeltà al sedicente Governo di Mussolini divenuto un Protettorato del regime nazionalsocialista».
La Resistenza delle marsine e delle feluche, in qualche caso costrette, come accadde a Budapest, persino a impugnare le armi per difendere le loro missioni diplomatiche, non meno rilevante almeno sul piano simbolico di quella delle formazioni partigiane di diverso orientamento e dal ricostituito Regio Esercito, aveva avuto, dunque, uno straordinario impatto politico. Perché mostrò all’intera comunità internazionale e soprattutto alle Potenze alleate il volto di un’Italia nuova e diversa che con tutte le sue forze si era schierata a combattere la scellerata alleanza dei Signori delle tenebre con l’intento, in parte riuscito, di mitigare le gravose condizioni imposte al nostro Paese dopo la firma del cosiddetto «lungo armistizio» di Malta del 29 settembre 1943.
Alla narrazione della calamitosa Odissea di questi diplomatici che, abbandonato il felpato e circospetto modus operandi connaturato nelle loro funzioni, si trovarono obbligati a divenire da un giorno all’altro uomini d’azione, e ad affrontare a testa alta i ricatti, le minacce, le privazioni tese a consumare il corpo e il morale, gli abusi efferati e il rischio sempre presente di veder stroncata la loro esistenza, per rappresaglia o gratuita barbarie dei loro carcerieri, è dedicato questo volume. Un lavoro pensato e redatto nel ricordo indimenticabile di due amici scomparsi, Luigi Vittorio Ferraris e Fabio Grassi Orsini, che seppero coniugare, in maniera esemplare, la professione del diplomatico al mestiere dell’analista del passato.
(Pubblicato il 27 novembre 2024 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)