L’8 settembre 1943 segnò una svolta drammatica per l’Italia. Mentre il Paese si trovava nel caos, i diplomatici italiani all’estero furono travolti da una tempesta inattesa. Ignari della proclamazione dell’armistizio, rimasero improvvisamente soli e in balia di eventi che avrebbero segnato indelebilmente le loro vite. A questo aspetto poco noto della storia italiana del Novecento è dedicato il nuovo libro dello storico Eugenio Di Rienzo “Un’altra Resistenza. La diplomazia italiana dopo l’8 settembre 1943” edito da Rubbettino del quale «Mimì» pubblica quest’ampia sintesi a firma dello stesso autore.
di Eugenio Di Rienzo
Nei suoi ultimi lavori, Renzo De Felice invitava a compiere una radicale revisione della storiografia sulla Resistenza, per evitare di farla restare un totem della politica politicante strumentalizzata da una sola parte. Come si era fatto per il fascismo anche questo episodio della storia italiana doveva essere studiato, invece, in tutte le sue componenti senza ridurre gli avvenimenti del 1943-1945 alla lotta armata tra la Resistenza comunista e la Repubblica Sociale Italiana. Perché resistenti azionisti, liberali, monarchici, cattolici, reparti del Regio Esercito, Carabinieri, Guardie di Finanza, funzionari statali non erano comunisti, e anzi molti di loro avversavano il comunismo, eppure avevano combattuto la dittatura dell’ultimo Mussolini con coraggio, tenacia, effusione di sangue pari a
quelli delle Brigate Garibaldi organizzate dalla formazione politica guidata da Togliatti.
Certo, la grande maggioranza dei confinati politici e dei condannati dal Tribunale speciale del Ventennio nero, dei volontari antifascisti italiani nella Guerra di Spagna, e la maggioranza relativa dei partigiani della Resistenza furono militanti del Partito comunista o suoi simpatizzanti. Le altre formazioni della guerriglia che impugnarono le armi contro le truppe della Wehrmacht e dell’Esercito Nazionale Repubblicano, avevano, forse, un afflusso di militanti più ristretto, ma il lottare in pochi fu un titolo d’onore, quando si lottava per la libertà in condizioni disperate contro forze avversarie preponderanti. Durante la Guerra di liberazione, poi, il Partito d’Azione, e il complesso delle bande liberali e democratiche, per numero di effettivi impegnati sul campo, non fu molto inferiore a quelle comuniste, come si fece credere subito dopo il 25 aprile.
La responsabilità di questo distorto uso politico della storia non può essere addebitata, tuttavia, solo al Partito comunista e ai suoi intellettuali, che hanno potuto fabbricare una lettura fuorviante di questi eventi, perché gli altri partiti e gli esponenti non comunisti o non filocomunisti della cultura hanno lasciato loro, per lunghi anni, il quasi monopolio d’una causa giusta: quella dell’antifascismo e della Resistenza.
Certo, con il passare del tempo, qualcosa di questa mistificante ricostruzione è cambiato. Dopo la pioneristica indagine di Alessandro Natta, redatta nel 1954 ma pubblicata non casualmente solo nel 1967, e quella di Sergio Cotta edita nel 1977, si è restituito tutto il suo valore alla resistenza del Regio Esercito con i suoi circa 12.000 caduti in combattimento e i più di 238.000 deceduti, per esecuzioni sommarie, deperimento, malattie, spietate vessazioni nell’inferno dei lager nazisti, o per gli insostenibili ritmi di produzione dei complessi industriali del Reich dove erano stati impiegati come forza di lavoro schiavizzata.
Ma ancora oggi è quasi del tutto ignorato l’eroico contributo al «secondo Risorgimento» degli uomini della nostra diplomazia che, abbandonati al loro destino dal Governo del Re, senza istruzioni e senza nessun preavviso dell’armistizio reso pubblico, l’8 settembre, rifiutandosi di aderire al fascismo morto e risuscitato, pagarono fino al termine del conflitto un altissimo prezzo, pur di non ammainare nelle loro Ambasciate e Legazioni il tricolore sabaudo e di sostituirlo con la bandiera della Repubblica Sociale Italiana. Il loro sacrificio è stato, infatti, strumentalmente cancellato dalla memoria dell’Italia repubblicana, dalla quale è stato rimosso il ricordo delle drammatiche vicende di questi resistenti senza armi. Alcuni dei quali, al termine della loro missione, furono persino radiati dai quadri della «carriera», con la menzognera accusa di essere stati «gerarchi fascisti e diplomatici di Mussolini», dall’Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, dove la responsabilità della sezione dedicata all’epurazione dei funzionari dello Stato fu affidata a esponenti di punta del Partito Comunista.
Nel martirologio dei caduti dell’«altra Resistenza» opposta dai nostri diplomatici al regime di Salò figurano solo pochi nomi tra i quali quello di Roberto Bagli, ucciso in combattimento in Corsica, il 13 settembre 1943, e quello di Filippo de Grenet, entrato a far parte del Fronte militare clandestino di Roma, fucilato, il 24 marzo 1944, alle Fosse Ardeatine, insieme al Colonello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Ma molti altri protagonisti di questa tormentata epopea bisogna aggiungere a quell’elenco. Incaricati d’Affari, Segretari d’Ambasciata, Consoli, messi a morte al momento della loro cattura, deceduti per maltrattamenti, insopportabili sforzi fisici imposti dal regime di «annientamento attraverso il lavoro punitivo», denutrizione, nei campi di concentramento e negli ergastoli della Germania, della Polonia, della Bulgaria, della Romania, dell’Ungheria, del Giappone, della Cina e degli altri Stati satelliti dell’Asse.
Alla narrazione della loro funesta Odissea, durante la quale i ricatti e le minacce si accompagnarono alle privazioni tese a consumare il corpo e il morale, e al rischio sempre presente di veder stroncata la loro esistenza dai loro carcerieri, è dedicato questo volume, concepito sperando di contribuire a far sì che il 25 aprile diventi un giorno del ricordo da celebrare con orgoglio da tutti gli Italiani. Come aveva auspicato Francesco Giorgio Mameli, responsabile della sede diplomatica di Sofia, nella lettera fortunosamente inviata, il 20 marzo 1944, dal campo d’internamento di Varšec situato nel cuore della desolata catena montuosa dei Balcani.
«Rimanendo fedeli al nostro posto, in terra straniera, facendo argine come potemmo alla marea montante del fascismo repubblicano e dell’oppressione nazista abbiamo compiuto il nostro dovere, semplicemente, così come oggi lo compiamo preferendo al tradimento le sofferenze, le angherie, i soprusi del campo di concentramento e l’incertezza dell’avvenire per noi e le nostre famiglie. Assai poco ci è rimasto ormai, se non la fierezza del dovere compiuto, la serena coscienza e l’inflessibile volontà. Nello squallore materiale che ci circonda, nelle privazioni di ciò che è indispensabile al nostro sostentamento, nella miseria delle piccole e grandi persecuzioni, nelle minacce ripetute di porre fine alla nostra esistenza, una cosa rimane e rimarrà: l’aver compiuto e il continuare a compiere il nostro dovere e che su ogni cosa passata si possa intendere la verità. Perché bisogna che questa verità sia nota, affinché tutti gli Italiani onesti, il giorno in cui saremo finalmente liberi, possano unirsi, senza rancori e senza vendette, ma solo con senso di giustizia e di umanità, per salvaguardare nel futuro la nostra Patria da un nuovo disastro e da un nuovo martirio».
(Pubblicato il 1 dicembre 2024 © «Quotidiano del Sud»)