di Gerardo Nicolosi
È ormai abbastanza noto che la storiografia della Resistenza in Italia è passata negli anni da una visione limitata al protagonismo dei partiti politici, e tra questi, prevalentemente, dei partiti di massa, a ricostruzioni decisamente più inclusive. Si è registrata quindi una minore enfasi per il carattere politico del discorso resistenziale e si è guardato piuttosto a “momenti” di opposizione al nazi-fascismo maturati nella società civile, anche spontaneamente, o in seno alle stesse istituzioni statuali, come nel caso degli ambienti militari. Questo cambio di prospettiva ha comportato la presa in considerazione di fenomeni resistenziali non necessariamente legati ad atteggiamenti contrari al regime sin dagli esordi dell’esperienza mussoliniana. Si è dato luce cioè anche a quei fenomeni che furono il risultato di una disaffezione progressiva nei confronti del fascismo e che presero corpo in senso decisamente oppositivo attorno agli inizi della seconda guerra mondiale per poi manifestarsi concretamente all’indomani della caduta di Mussolini e dopo l’8 settembre. A nostro avviso è proprio questo il caso della diplomazia, oggetto di studio nell’ultimo volume di Eugenio Di Rienzo dal titolo Un’altra Resistenza. La diplomazia italiana dopo l’8 settembre 1943, (Rubbettino, Soveria Mannelli 2024, pp. 260, € 20.00), in cui la parola “diplomazia”, forse per la prima volta nella storiografia italiana, appare associata a quella di “Resistenza”, dando lustro ad una pagina di storia sino ad oggi nota soltanto in parte.
Come abbiamo già evidenziato in altra sede, qualsiasi giudizio sulla diplomazia italiana, dopo la proclamazione della resa incondizionata dell’Italia, deve tenere conto del ruolo che essa ha avuto soprattutto negli anni maturi del regime. Dal 1926, l’anno del “siluramento” del Segretario generale, Salvatore Contarini che fu “maestro” di Raffaele Guariglia, al quale molta attenzione dedica Di Rienzo nel suo libro, il Ministero degli Affari Esteri diventa una “macchina” funzionale ad una inversione di rotta della nostra politica estera, che si allontanò progressivamente da quella linea di equilibrio che era stata caratteristica dell’età liberale. A partire dalla gestione Grandi, interrotta dal nuovo ma significativo interim di Mussolini (1932-1936), e ancor più con Galeazzo Ciano, ministro dal 1936 al 1943, l’organizzazione del Ministero vede il vertice politico assumere una posizione di assoluta preminenza nel processo decisionale, a scapito dell’elemento diplomatico, che non gioca più con la stessa incidenza il suo tradizionale ruolo di “filtro”, fatto soprattutto di informazione e analisi.
Sappiamo anche che il processo di fascistizzazione del ministero avviato da Grandi e che ovviamente ebbe seguito negli anni a venire riuscì soltanto in parte. I famosi «ventottisti», quei funzionari entrati in carriera per meriti politici grazie alla legge 861 del 2 giugno 1927, furono percepiti negli ambienti ministeriali quasi come un corpo estraneo, perché elementi della piccola e media borghesia spesso privi di adeguati titoli di studio, entrati a far parte di un mondo, quello aristocratico-nobiliare della carriera, a loro del tutto estraneo per censo, eredità familiare, consuetudini sociali. La “sociologia” del ministero negli anni del fascismo era dunque cambiata, politicizzandosi, certo, ma anche democratizzandosi. Come scriveva Roberto Ducci ricordando gli anni del suo ingresso in carriera, era il 1937, quando un vecchio usciere che aveva servito al Palazzo della Consulta lamentava spesso «il rarefarsi dei duchi e il sovrabbondare dei dottori» che furono sostituiti, in parte, da uomini che avevano guadagnato marsine e feluche sui campi di battaglia della Grande Guerra e nel quasi conflitto civile che si sviluppò dal biennio rosso alla Marcia su Roma.
Tuttavia anche i «ventottisti» vennero in parte “metabolizzati” dalla carriera, a dimostrazione di una tradizione che, sebbene soffertamente, resisteva alla fascistizzazione più soffocante, alimentandosi soprattutto di un senso di specialità rispetto agli altri corpi dello Stato, della consapevolezza di essere una élite tecnico-funzionale, la cui coesione si era rafforzata negli anni anche grazie a rigide procedure di reclutamento e a logiche fortemente endogene di avanzamento interno. Elemento caratterizzante di questa coesione era il rapporto privilegiato con l’istituto monarchico. E ciò non solo per ragioni “di sentimento”, cioè di riconoscimento dell’azione nazionale svolta da casa Savoia sin dagli anni del Risorgimento. Ma anche per cause strettamente istituzionali, se si pensa soltanto all’impatto che l’articolo 5 dello Statuto Albertino («Il Re, al quale solo appartiene il potere esecutivo, comanda tutte le forze di terra e di mare: dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri»), aveva avuto per tutta l’età liberale nei rapporti Governo-Amministrazione centrale degli Esteri e sulle logiche interne che indirizzavano l’azione dei civil servants di Palazzo Chigi.
Ad avviso di chi scrive è questa la chiave che più aiuta a spiegare molte delle vicende che Di Rienzo restituisce con dovizia di documentazione in questo volume. Particolarmente significative sono le pagine dedicate a Guariglia, chiamato alla guida del Ministero dopo il 25 luglio in virtù della sua lunga esperienza diplomatica, la cui azione, nella versione di Di Rienzo, fu perfettamente in linea con la “fuga” del re e di Badoglio da Roma e, soprattutto, dalle loro responsabilità di aver lasciato praticamente indifesa la capitale. Fu l’inerzia di Guariglia, secondo l’autore, a provocare un totale isolamento soprattutto dell’amministrazione periferica del Ministero, del personale delle nostre missioni all’estero, che rimase assolutamente privo di qualsiasi copertura “politica”, più o meno alla stregua di quello che accadde per il Regio esercito. Sappiamo bene che la storia non va giustificata, ma non si può fare a meno però di rimandare alle enormi difficoltà in cui si trovò ad operare Guariglia e il suo ristretto entourage nei 45 giorni, quando già da tempo ci si stava adoperando, seppur tra dubbi e intempestivi ripensamenti, per trovare un accordo con gli angloamericani per una fuoriuscita dal conflitto.
Il clima di totale sbandamento, in cui precipitò il Paese dopo l’annuncio della firma dell’Armistizio di Cassibile e l’immediata e travolgente rappresaglia della Wehrmacht non impedì, però, alla maggior parte della nostra diplomazia di ritrovare la rotta e di avere ben chiaro quale fosse il suo compito all’indomani dell’8 settembre. E cioè confermare la propria fedeltà al Governo del Re e di Badoglio e voltare le spalle alla disperata avventura di Mussolini a Salò. Quanto scrive Di Rienzo non sorprende se si prende in considerazione il fatto che una diffusa disaffezione nei confronti della politica estera fascista si registrava già da tempo: basti citare qui i casi di Bernardo Attolico, di cui Hitler e von Ribbentrop avevano chiesto la “testa” facendolo richiamare da Berlino nel 1940, e di Luca Pietromarchi, uno dei principali “gabinettisti” di Ciano, già titubante, in interiore homine, riguardo all’intervento in guerra dell’Italia. E che poi nella sua posizione di Presidente del Gabinetto Armistizio e Pace, in controtendenza rispetto alle direttive di Palazzo Venezia, e sia pure per accattivarsi le simpatie della Santa Sede in vista di un possibile, futuro tracollo del regime, si adoperò, soprattutto dopo l’estate del 1942, per la salvezza degli ebrei nei territori occupati dalle truppe italiane nella Francia meridionale, in Croazia, in Dalmazia, in Grecia.
Di Rienzo ripercorre in pagine dense di pathos il comportamento dei nostri diplomatici dopo l’8 settembre, un piccolo drappello dei quali oltrepassò le linee, raggiunse Brindisi con ogni mezzo e mise in piedi quell’abbozzo di amministrazione centrale che sotto la guida di Renato Prunas fece poi i primi passi della nostra politica estera post-bellica. Non risparmiando di soffermarsi sui casi più eclatanti di ostinata fedeltà fascista, quello di Anfuso su tutti, il libro restituisce soprattutto quanto accadde al personale in servizio a Madrid, Zagabria, Bucarest, Budapest, Sofia, Tokio, Ankara, Buenos Aires, e in quella che Di Rienzo definisce con felice metafora «la fossa dei leoni»: Berlino, Tokio, Shangai. Dove gli «Ambasciatori del Re» sfidarono le vessazioni tedesche e nipponiche pur di non riconoscere la legittimità della Repubblica Sociale Italiana. A proposito di questo ultimo capitolo, vogliamo ricordare il caso di Francesco Taliani De Marchio, ampiamente trattato da Di Rienzo, che rimase fedele al Governo della King’s Italy, e pertanto fu internato in un campo di concentramento a Shangai con tutta la famiglia e il personale della sede diplomatica. Segnaliamo la sua vicenda perché Taliani ebbe una vita professionale alquanto avventurosa: da giovane funzionario era stato a Costantinopoli, espulso quando l’Italia era entrata in guerra con l’Intesa, fu tenuto ostaggio per due settimane dal Valì di Smirne. Destinato poi a Pietroburgo, gli toccò assistere alla rivoluzione bolscevica, che non fu per niente tenera con le rappresentanze diplomatiche occidentali, tanto da essere deportato prima ad Arcangelo e poi a Vologda. Infine, appunto, il 9 settembre, fu arrestato dalla polizia giapponese perché si era rifiutato di consegnare gli archivi della missione di cui era a capo.
Taliani fu liberato soltanto il 16 agosto 1945, quando si mise subito a disposizione del Ministero e si adoperò per il rimpatrio del personale diplomatico e consolare ancora di stanza a Shangai e nel resto della Cina, Insomma, una testimonianza di come la vita dei diplomatici, allora come oggi, non sia soltanto cene di gala e champagne, come erroneamente a volte viene percepita dall’opinione comune. Anzi, in vari passaggi del libro di Di Rienzo si trova conferma di un’altra verità, che la diplomazia è spesso chiamata a fare da parafulmine quando le tempeste si scatenano sui Governi che è chiamata a servire. Il libro, che si legge come un romanzo, è dedicato a due diplomatici che furono anche due valentissimi storici, Luigi Vittorio Ferraris e Fabio Grassi Orsini: il primo ci ha lasciato una storia complessiva del ministero degli esteri dall’Unità agli anni Cinquanta che è ancora molto utile; il secondo è stato il promotore di un poderoso studio sul personale diplomatico di età liberale e poi di alcuni saggi illuminanti sulla diplomazia e il fascismo. A pensarci bene, nonostante la grande conoscenza dell’amministrazione che avevano servito per lunghi anni, nessuno dei due ha mai avuto intenzione di studiare ciò di cui si scrive in questo libro. Grassi Orsini, con il quale chi scrive ha avuto modo di collaborare per molto tempo, ricordava spesso quanto ripeteva Isacco Artom a chi gli chiedeva della politica cavouriana e cioè che «un diplomatico è fatto per tacere». Ma al di là del riserbo professionale, credo che dietro questa ritrosia nel trattare le vicende della diplomazia italiana, immediatamente prima e dopo l’8 settembre, e quindi nella sua stagione più tragica e più eroica, ci fosse piuttosto tutta la consapevolezza del caos e della tempesta degli animi di quel tempo di ferro e un senso di appartenenza che impediva loro quel giusto distacco dalle «cose e gli uomini» che è condizione dalla quale una buona storiografia non può mai prescindere.
(Pubblicato il 7 gennaio 2025 © «Giornale di Storia» – Recensioni)