di Armando Pepe
Basato su di una solida base di scavo archivistico e arricchito da un notevole apparato di note, che rimanda ad una altrettanto robusta bibliografia, è il recentissimo volume Un’altra resistenza. La diplomazia italiana dopo l’8 settembre 1943, di Eugenio Di Rienzo. È un libro diviso in tre parti: una particolareggiata introduzione, una rassegna di fatti inediti, delle lunghe conclusioni. Generalmente, quando si parla di Resistenza si fa riferimento ai partigiani che combatterono sul campo, nei territori della Repubblica Sociale Italiana, contro i fascisti e gli invasori tedeschi nazisti. Nondimeno, ci fu un vasto un mondo che si oppose, sia pure non apertamente ma correndo il rischio di rimetterci la vita, alle politiche distruttive di marca fascista e nazista. Eugenio Di Rienzo ha esplorato, riportando alla luce una ingente messe documentaria, l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, oltre ad avere compulsato sistematicamente la memorialistica dei diplomatici che presero parte agli eventi di cui il libro tratta.
Riguardo al concetto di Resistenza o, meglio, di Resistenze, dato che non si può parlare in chiave unitaria e semplicistica di un fenomeno complesso che in sé riassume diverse posizioni politiche e culturali, Di Rienzo fa un’operazione di chiarezza, indagando il comportamento dei diplomatici italiani, divisi tra fedeli alla monarchia o fedeli al fascismo repubblicano.
Scrive lo storico romano che gli uomini della diplomazia italiana, abbandonati «al loro triste destino dal Governo del Re, senza istruzioni e senza nessun preavviso dell’armistizio reso pubblico, l’8 settembre 1943, rifiutandosi di aderire al fascismo repubblicano, pagarono fino al termine del conflitto, dai Balcani, al Danubio, all’Estremo Oriente, un altissimo prezzo, pur di non ammainare nelle loro Ambasciate e Legazioni il tricolore sabaudo e di sostituirlo con quello in cui si accampava la torva aquila della Repubblica Sociale Italiana. Il loro sacrificio è stato, infatti, strumentalmente cancellato dalla memoria dell’Italia repubblicana, dalla quale è stato rimosso il ricordo delle drammatiche vicende di questi resistenti senza armi» (p. 11). C’era da riempire un vuoto storiografico che doveva inevitabilmente essere colmato. Di Rienzo si è assunto l’onere di farlo.
Come accennato in precedenza, la narrazione parte subito con la rottura del connubio italo-tedesco e il riposizionamento del Governo badogliano nel campo degli Alleati, avvenuto ex abrupto, con drammatiche conseguenze, di disorientamento nazionale, di un collettivo sbandamento, di un generale crollo nazionale. Ribadisce con parole nette l’Autore che «dopo “i giorni della vergogna”, la stragrande parte delle Forze Armate si dissolse, come si è detto, nel nulla. E per i militari, sfuggiti alla prigionia o al massacro da parte dei tedeschi, la fuga del Re fece suonare lo squillo dello sciogliete le righe, provocando il fenomeno del “tutti a casa”, che [Albert] Kesselring commentò, sprezzantemente, con la caustica battuta che “un esercito composto da un popolo di zingari non avrebbe potuto comportarsi diversamente”» (p. 51). Molto probabilmente la frase di Kesselring lasciava trasparire, in netta evidenza, il significato profondo dell’ideologia nazista. Tuttavia, molti furono gli italiani che tennero la schiena diritta, comportandosi da uomini tenaci e pronti al sacrificio pur di tutelare l’onore della Patria. L’Autore racconta, in presa diretta e con piglio deciso, l’aria che tirava in quei convulsi frangenti all’interno delle mura di Palazzo Chigi, all’epoca sede del Ministero degli Esteri, il cui titolare (dal 28 luglio 1943 all’11 febbraio 1944) era il dimenticato (o ignoto ai più) Raffale Guariglia, diplomatico napoletano di lungo corso.
Molto interessanti risultano anche le pagine in cui si analizzano i casi paradigmatici dei diplomatici resistenti, di solito quelli che provenivano da una durevole carriera, che si adoperarono fattivamente a favore del nuovo Governo badogliano, e dei diplomatici collaborazionisti, inseriti nei ranghi del Ministero degli Esteri in epoca fascista, meno preparati ma più fanatici e perciò pericolosi. L’Autore, difronte alla marea di fatti inediti, che descrivono le atmosfere delle sedi diplomatiche italiane sia in Europa sia nell’Estremo Oriente (in cui il livoroso comportamento dei giapponesi nei confronti degli italiani era analogo se non peggiore rispetto a quello dei tedeschi), sceglie con sagacia le cose che destano più interesse ed è latore di proposte storiografiche dalle sicure prospettive.
Suggerisce, nel testo come nel fitto corpo delle note, memorie e letture da riscoprire e che, in questa recensione, non possono passare sottotraccia: le memorie di Pasquale Jannelli sulla guerra nel Pacifico e soprattutto di Fosco Maraini (Case, amori, universi, da pochi anni riedito da La Nave di Teseo), che, prigioniero dei nipponici insieme alla propria famiglia, si amputò volontariamente la falange di un dito per dimostrare il proprio coraggio all’ufficiale giapponese che lo custodiva, il quale si impressionò positivamente davanti al non comune gesto e diede più abbondanti razioni di latte alle piccole figlie di Maraini. Di Rienzo, in conclusione, subendo il fascino dell’inedito, riporta alla luce, in questo come negli altri suoi libri, tasselli di una storia ancora inesplorata ma non per questo meno importante di quella già conosciuta.
(Pubblicato il 22 dicembre 2024 © «Storia GLocale» – Recensioni)