di Paolo Luca Bernardini
Il mondo dell’ebraismo italiano, e in particolar modo padano, riserva continue sorprese, e gli studi nonché edizioni di testi, che si susseguono, sia in Europa, sia negli Stati Uniti e in Israele, ci dischiudono sempre più ad un mondo di “culture parallele”, all’interno di quella, già di per sé alquanto diversificata e complessa, dell’Italia disunita e vivacissima della prima età moderna. Ora una superba ricerca di Michela Andreatta, docente presso l’Università di Rochester, negli Stati Uniti, ci introduce all’universo mentale e poetico di un protagonista del Seicento letterario e religioso ebraico, Mosheh ben Mordekhai Zacuto (Amsterdam, c. 1610 – Mantova, 1º ottobre 1697), dal 1673 fino alla morte rabbino e figura intellettuale di riferimento dell’importantissima comunità ebraica di Mantova. Ora, preliminarmente, conviene chiedersi, in vena moderatamente polemica, del perché una figura così notevole sia esclusa dalle oltre quarantamila biografie del “Dizionario Biografico degli Italiani”, da poco concluso, poiché è vero che nacque ad Amsterdam, ma è anche vero che operò tutta o quasi la vita, come rabbino, poeta, talmudista, cabbalista, in due centri fondamentali dell’ebraismo italiano, Venezia e Mantova, legati strettamente tra loro anche per la “circolazione di dotti” che li caratterizzava. Non è il solo escluso, ovviamente, ma vi sono altri, figure a lui affini o suoi ideali maestri, che invece sono presenti, come Leon Modena, o Simone Luzzatto (peraltro la voce pur pregevole della Saracco su quest’ultimo, datata 2006, andrebbe aggiornata, come spesso purtroppo o per fortuna accade, dato l’immenso passo avanti compiuto dagli studi su di lui, il suo ambiente, e il significato epocale delle sue posizioni scettiche, grazie al lavoro di Giuseppe Veltri e del Maimonides Centre for Advanced Studies di Amburgo negli ultimi dieci anni almeno).
Michela Andreatta aveva già curato per Bompiani L’inferno allestito, traducendolo con testo a fronte nel 2016. Ora, in un volume di impianto e finalità differenti, la medesima studiosa, per i tipi del Centre for Renaissance and Reformation Studies presso l’Università di Toronto, ha appena pubblicato la versione inglese del poema di Zacuto, la sua principale opera poetica, col titolo di Hell Arrayed (Tofteh ‘Arukh). A Seventeenth-Century Hebrew Poem on the Punishment of the Wicked in the Afterlife, cimentandosi nell’impresa affatto improba, finalmente eroica, di trasporre in inglese l’elaboratissima poesia di Zacuto, di difficile comprensione sia ai tempi suoi, sia oggi stesso, anche per chi l’ebraico abbia come madrelingua. Titanica l’impresa, sorprendenti i risultati, siamo di fronte ad una breve (925 versi), splendidamente intricata costruzione poetica barocca, pubblicata postuma a Venezia nel 1715, in un età in cui il Barocco già declinava, già era “maniera”, ma che proprio grazie a tradizioni religiose e teologiche altre, al Talmud ma soprattutto alla Cabbalà (l’esoterismo ebraico più intricato e misterioso, e dunque più vicino al concettismo lirico secentesco, davvero “arte d’ingegno”), otteneva nuova e tardiva linfa. Un “allestimento” dell’inferno, stavolta, nella tradizione di una poesia e prosa ebraica che amava “allestire”, o “apparecchiare”, come fosse una tavola, proprio la “tavola” del sapere morale e non solo, si pensi al testo poi divenuto canonico di Yosef ben Efrayim Caro, lo Shulchan ‘Arukh, opera normativa e ritualistica stampata anch’essa a Venezia nel 1565-66, fino allo ‘Eden ‘Arukh di Ya‘aqov Daniel Olmo, continuazione e riscatto (qui si parla del paradiso, per l’appunto) del tenebroso meccanismo di morte e pena di anima e corpo messo a punto da Zacuto.
Seicento, secolo di malinconia. Le pagine magistrali di Aurelio Musi ne delineano con precisione i contorni. Discernere, nel poema “dantesco” di Zacuto, tre elementi, centrali (ma in realtà ve ne sono altri, numerosi, a partire dalla “immaginazione”, su cui torneremo), la morte, il viaggio, l’aldilà (quello riservato pro tempore o in eterno, a seconda della gravità delle colpe, ai malvagi), aiuta a collocarlo al declinare di una stagione di pensiero, e di forme espressive, che il secolo dei Lumi anche troppo frettolosamente spazzerà via. La stagione barocca si era conclusa da tempo. Marino si era spento nel 1625, lasciando, certo, ampia scuola. Luis de Góngora y Argote due anni dopo. Bernardo de Balbuena, gran cantore del Nuovo Mondo in versi tuttora straordinari, lo stesso anno precedente. Gli ebrei sefarditi erano innanzi tutto spagnoli, e della grande stagione barocca, e non solo, avevano profonda nozione, così come degli autori loro coevi, primo fra tutti quel Calderón de la Barca il cui “La vita è sogno” dà qualche ispirazione anche a Zacuto, come segnalò già Andreatta nell’edizione italiana del poema.
La morte. Certamente il Seicento è secolo ove essa si ripresenta impetuosa e terribile in forma di epidemia e carestia e guerra. L’antica preghiera medievale, “A peste et fame et bello libera nos domine” sembra perder efficacia, negli orrori, tra l’altro, della Guerra dei trent’anni. Non che la mostruosità del mondo, la sua “vanitas” fatta di putrefazione e disfacimento, non ispirasse la poesia, soprattutto religiosa, anche prima, basti leggere Caterina Fieschi Adorno, morta nel 1510, che peraltro aveva interiorizzato, pur con tutti i suoi tormenti, un Purgatorio invenzione medievale — è ancor viva la lezione del gran libro di Le Goff del 1981 — di solito posto in luoghi ben precisi. Ma il Barocco eleva la riflessione al punto dell’esorcismo: cantare la morte, l’inferno, significa oggettivarlo e in qualche modo rimuoverlo, grazie al pensiero e alla parola, deprivandolo di tutto il suo orrore, incapsulando nella perfezione geometrica del verso, che lo imprigiona, o sogna di farlo. E allora si deve leggere l’opera che compie l’esorcismo letterario, magico prima che barocco, portando a compimento il Barocco stesso, la poesia “Memento della morte e dell’inferno” di Gòngora:
Urnas plebeyas, túmulos reales
penetrad sin temor memorias mías
por donde ya el verdugo de los días
con igual pie dio pasos desiguales.
Revolved tantas señas de mortales,
desnudos huesos y cenizas frías
a pesar de las vanas, si no pías
caras preservaciones orientales.
Bajad luego al abismo, en cuyos senos
blasfeman almas, y en su prisión fuerte
hierros se escuchan siempre y llanto eterno,
si queréis, o memorias, por lo menos,
con la muerte libraros de la muerte,
y el infierno vencer con el infierno
Come ha mostrato Giulia Poggi, si tratta di un’imitazione-rielaborazione di un sonetto italiano, di Angelo Grillo, tratto dalla raccolta “Pietosi affetti”. Grillo peraltro, poeta genovese, nato nel 1557 e morto a Parma nel 1629, è autore di un “Pompe della morte”, che andrebbe riletto anche per ricerche come queste. “Vincere l’inferno con l’inferno”, dunque, esorcizzare l’orrore imprigionandolo nel reticolo perfetto del verso. Questo fa Zacuto, che della stagione barocca prende tutta l’ardua costruzione linguistica, portando l’ebraico a vette mai raggiunte prime, con figure retoriche di ogni tipo, e una versificazione tanto elastica e variabile quanto sempre attenta alla prosodia, dove l’affresco infernale dipinto viene intrecciato da fili linguistici complessi e stringenti. Anche se lo fa non per perseguire fini esclusivamente estetici: il poema è parenetico, tende a dissuadere dal peccato. Chi pecca, va incontro a pene terribili, ancor più brutali e meno sofisticate di quelle prospettate da Dante. La morte, dunque. Vista nella sua metafisica, ma anche nella sua estrema fisicità, nel momento in cui la scienza cominciava ad individuarla non come “status”, ma come “processo”, processo di affievolimento sensoriale, più che semplice sonno, addormentamento, alterazione progressiva della coscienza e dell’autocoscienza; nella soggettiva che dà, sfidando ogni orrore, lo stesso Zacuto, il morente non sa se è morto o non lo è, angosciosamente se lo chiede. Siamo, del resto, nel secolo dell’inganno cartesiano, del demone che ci illude: l’unica cosa che per Cartesio è indiscutibile è l’io, l’autocoscienza, ma qual tragedia si compie quando essa stessa si indebolisce, si sfarina, si scompone, come nel processo che porta alla morte, anzi, che “costituisce” la morte? Cosa rimane dell’”io” cartesiano, della sua limpida sicumera, nel momento in cui tale “io” stesso pietosamente si disfa, corrode, consuma, passa “ad altro”?
Il secondo tema è il viaggio. La discesa all’inferno è una forma, terribile, e in alcuni casi senza ritorno, in una terra sotterranea, in sette camere che conducono progressivamente al centro della terra. Al crepuscolo della vita di Zacuto nell’Inghilterra di Newton, ben diversa dalla Mantova cabbalistica e messianica (ma poi, non era un mistico e teologo anche Newton, siamo sicuri che siano due mondi così differenti) Thomas Burnet, e siamo nel 1681, pubblica il suo trattato (teologico) sulla terra, le origini della geologia, e invita a scoprire l’interno del pianeta tanto quanto Galileo decenni prima aveva fatto con le stelle. Inizia la feconda stagione, anche letteraria, dell’esplorazione del sottosuolo, da Ludvig Holberg, principe degli illuministi danesi, al Giacomo Casanova dello “Icosameron”, capolavoro che attende da tempo redenzione (fino a Jules Verne, naturalmente, e ben oltre). Zacuto individua l’inferno al centro della terra, e compiutamente lo descrive, con giganti punitori, boia divini, che avrebbero ben figurato nelle utopie illuministiche, pur così lontane dallo spirito, ma soprattutto dalla lettera di questo poema. Il viaggio verso l’inferno, il viaggio verso il nuovo. Non stupisce che tra i non rari “inferni” del Seicento italiano ve ne sia uno di quel gran narratore, in versi, dell’impresa di Vespucci, Girolamo Bartolomei, che un giovane studioso friulano, Tancredi Artico, ha di recente rimesso al centro dell’attenzione con una monografia (Prospero edizioni, 2021). La dimensione di alterità, e di scoperta, è alla fine simile. Non si tratta pur sempre di un “mondo nuovo”, che conviene peraltro “allestire” in versi, per mettere in guardia contro tutte le mostruosità, soprattutto nel caso dell’impossibilità di un ritorno? La meraviglia, dunque, chiave del Barocco da sempre.
Infine, l’aldilà. L’inferno descritto, “apparecchiato” da Zacuto, deriva da una tradizione talmudica e soprattutto cabbalistica che supera ampiamente, divenendo poi centrale nel mondo ebraico, il vecchio mondo biblico, ove alla fine l’aldilà, poco considerato, era identificato con lo “sheol”, abbastanza indistinto, per cattivi e per buoni, pur sempre, però, collocato nelle profondità della terra. Andreatta individua con precisione le fonti per il poema, tra cui la tradizione zoharica e quella cabbalistica luriana, e altre ancora. Sono fonti eminentemente ebraiche, anche se ovviamente la presenza, se non altro come punto di riferimento cristiano, di Dante è ben evidente. Ma non mancano i riferimenti a Paolo Segneri, ovviamente, e Daniello Bartoli, e alla grande tradizione del teatro gesuitico, inteso come strumento pedagogico. E in effetti l’opera di Zacuto si presta alla messa in scena, qualcosa da teatro della crudeltà, alla fine, da grand-guignol, con tutti gli orrori minuziosamente descritti (ma senza compiacimento alcuno, come a dire, “guardate che se non vi comportate bene, questo vi aspetta, e vi spetta, anzi”).
Pubblicato nel 1715, letto ritualmente dagli ebrei di Ferrara nel 1720, commentato, il poema venne anche integrato da una descrizione, assai meno grandiosa, del paradiso, da parte di Jacob Daniel Olmo, come già detto, e presso Bragadin a Venezia nel 1743 i due testi vennero pubblicati insieme. Come Zacuto, Olmo era giudice rabbinico, poeta occasionale, figura di sapiente a tutto tondo come nella meravigliosa tradizione rabbinica europea della prima età moderna, sia aschenazita, sia italiana, sia sefardita.
Nel leggere un testo così denso, articolato, strutturato, ove il tardo barocco s’alimenta di tutto l’arzigogolato apparato concettuale, anzi, concettistico, della Cabbalà, ci viene aperto un mondo di pensiero, teologico e morale, che in qualche modo sente il vento dell’ambiente cristiano e “italiano” circostante, ma che si muove nel solco della grandiosa, e per molti aspetti chiusa ed esclusiva, tradizione dell’ebraismo, lasciandosi “sfiorare” certo da Dante, e dai poeti e scrittori religiosi cristiani del tempo, come Segneri e Pinamonti spesso fanatici nell’adempiere al ministero di evangelizzazione, e ben poco simpatetici verso gli ebrei. Non è un atteggiamento di “dialogo” con la cultura cristiana, quanto piuttosto di “uso occasionale”, di “sfioramento”, forse. D’altra parte, Zacuto scrive esclusivamente in ebraico, diversamente da altri suoi contemporanei, ad esempio Simone Luzzatto. Egli intende muoversi nel cerchio magico, intellettualmente superbo, della diaspora sefardita. Ad Amsterdam nasce, da una famiglia di “conversos” tornati alla propria fede, ad Amburgo soggiorna brevemente, a Venezia e Mantova vive. Vi era una costellazione teologica e letteraria ebraica ben consapevole della propria identità, delle proprie dispute, della necessità di liberarsi degli “irregolari”, soprattutto se radicalmente tali, come Spinoza, che rientra perfettamente nel quadro. La “materialità” dell’inferno di Zacuto ha una concretezza tutta mercantile: vi domina la retribuzione, il “contrappasso”, in modo assai più marcato che non in Dante. Poi è un inferno che compendia il purgatorio, invenzione cristiana medievale, così che qualcuno è destinato a lasciarlo per lidi più ameni. E chissà le sue sozzure forse sono anche un malinconico richiamo a quelle, concretissime e di questo mondo, dei ghetti, con tutti i loro limiti residenziali, sia a Venezia, sia a Mantova. Ad Amsterdam, nel 1738, un altro ebreo “cosmopolita”, ovvero preso dal cerchio magico di Venezia, Padova, Amsterdam – cerchio per lui spezzato da quel viaggio liberatorio a Safed in Terra Santa che Zacuto sognò per sé, ma senza mai realizzarlo – Mosè Hayyim Luzzatto, componeva uno dei più celebri trattati di morale ebraica (“musar”) mai scritti. Il “Mesilat Yesharim” sembra essere l’antidoto perfetto per il credente e il pio, il saggio e il devoto, insomma, “il giusto”, per evitare di sprofondare nell’inferno puteolente divinato da Zacuto. Ma la sua prosa è lineare, nello spirito dei tempi, semplice e chiara come si esigeva nel tempo dei Lumi. Che si chiude con un inno di gioia e speranza, “Israele si riunirà col suo creatore”. Gli ultimi versi del poema di Zacuto sono pieni di rabbia, invitano Dio, seguendo Esodo, 15-17, a spezzare il Suo nemico con rabbia, per la Sua gloria. I tempi erano cambiati.
Molto vi sarebbe ancora da dire su questa eccellente edizione di un testo di difficoltà estrema, e che può essere letto in modo molto diverso se il lettore è un ebreo che ha familiarità con tutta la propria tradizione, biblica, ma soprattutto rabbinica, talmudica e cabbalistica, ovvero se il lettore ha familiarità soprattutto con la tradizione cristiana e filosofico-teologica occidentale. Siamo nel mondo dell’immaginazione barocca, ma è alla fine un’immaginazione ben disciplinata e veicolata dall’uso alla fine forse dogmatico, certo quasi sistematico, di alcune fonti. Non è dunque “libera” immaginazione, come forse in un Donne, un Milton, o tra gli spagnoli. Comunque, immaginazione è. E allora concludo invitando a leggere un libro che molto ha da dire su di essa, “Un mondo non di questo mondo. La realtà delle immagini e dell’immaginazione” (ETS, 2023), di Alfredo Ferrarin, docente alla Normale di Pisa.
Lo statuto ontologico dell’immaginario è meravigliosamente complesso. La sua dimensione dell’essere condiziona l’essere reale, non immaginario, in modo vincolante, e questo il pensiero secentesco, per certi aspetti e in generale assai più ricco di quello del secolo successivo, lo aveva ben compreso. Stanze della memoria, stanze della fantasia, padiglioni dell’inferno. “Che sogno è questo che sto sognando?” (v. 255), scrive Zacuto. E Baltasar Graciàn: “La fantasia giunge più lontano della vista.” L’eredità del Seicento, anche quello poco noto della poesia ebraica, è davvero immensa, e in gran parte ancora da riscoprire. Volumi come questo prima che ad una letteratura e ad un autore, rendono omaggio doveroso, e profondo, ad un secolo intiero.
(Pubblicato l’8 dicembre 2023 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)