di Marco Valle
Nel 1388, con l’inglobamento della contea di Nizza, i Savoia, signori di langhe, valli e montagne, riuscirono ad aprirsi una finestra sul mare. Piccoli tratti di costa ma sufficienti per creare un embrione di forza navale e trasformare Villafranca (oggi Villefranche) in una base per le prime modestissime unità il cui principale compito consisteva nella riscossione delle gabelle dalle navi in transito sotto costa. L’interesse della terragna dinastia verso una prospettiva marittima rimase però altalenante sino alla metà del Cinquecento quando il duca Emanuele Filiberto intraprese una prima politica marittima. Un modo, dopo le devastanti guerre franco-spagnole e le incursioni saracene, per rilanciare l’economia del nizzardo e del suo entroterra ma anche un segnale di sovranità e indipendenza. La città di Nizza venne fortificata mentre una micro squadra sabauda, comandata dall’ammiraglio Andrea Provana di Leynì, partecipò nel 1565 alla liberazione di Malta e nel ‘71 alla battaglia di Lepanto.
Nel 1576 un altro passo verso il mare: dopo lunghe trattative e molti denari, la famiglia Doria cedette ai Savoia il territorio di Oneglia; nel ’79 seguì la saldatura, con l’acquisizione della contea di Tenda, dei collegamenti terrestri tra il ducato e Nizza. Due mosse in controtendenza rispetto al ripiegamento generale di larga parte della Penisola verso l’interno e parallele allo stagliarsi nel Mare Interno della talassocrazia inglese. Come ricorda il grande storico Federico Chabod: “È l’apparire di una grande potenza nuova nelle acque mediterranee e cercano di giovarsene i duchi di Savoia i quali, per svincolarsi dal solo gioco tra Francia e Spagna, e per sfuggire all’egemonia francese, tendono ad appoggiarsi sulla corte di San Giacomo. Anche i Savoia stanno ora pensando ad ampliare il loro Stato in senso esclusivamente italiano; anch’essi cominciano a pensare non solamente a Milano e alla valle Padana, ma anche alle coste liguri, a Savona e a Genova, di cui tentano la conquista a più riprese, nel 1625-28 e nel 1672; anch’essi cominciano a dare maggiore importanza al possesso di porti mediterranei, che sono “il solo angolo che abbiamo per renderci conosciuti e considerati dalle nazioni straniere, per via del mare… senza di che resteressimo qua come rinchiusi dalle montagne e segregati dal commercio e cognizione del rimanente mondo”. Ed ecco i loro approcci con l’Inghilterra, già sotto Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo I, e poi, più decisamente, sotto Carlo Emanuele II: trattato di commercio anglo-sabaudo del 1669; missioni politiche fra il 1670 e il 1675″.
A sua volta il Foreign Office intravide nel Piemonte il possibile antemurale alla Francia e al Sacro Romano Impero e un punto di riferimento nell’Europa mediterranea. Al netto delle improbabili proposte matrimoniali esperite dai duchi – sulla scia di Emanuele Filiberto, per volere di Filippo II uno dei pretendenti alla mano di Elisabetta Tudor -, e dalla ripetuta offerta, più volte snobbata, di Nizza (porto franco dal 1667) come terminale delle merci inglesi al posto di Livorno, Londra mantenne sempre alta l’attenzione verso i disponibili piemontesi, concedendo ai loro ambasciatori, primi tra gli italiani, l’equiparazione regia nel cerimoniale di corte di Giacomo II. Una sempre più stretta relationship che allo scoppio della guerra di successione spagnola si saldò nel trattato d’alleanza militare del 4 agosto 1704.
Con la pace di Utrecht Vittorio Amedeo II riceveva in premio la corona di Sicilia. Un salto di qualità formidabile per la dinastia alpina che entrava definitivamente nel grande gioco politico mediterraneo come junior patner della potenza britannica. L’inizio di un rapporto diseguale e subalterno ma confortevole a cui l’entità sabauda e poi l’Italia unitaria – pur tra alti e bassi, incomprensioni e riavvicinamenti – rimarranno pervicacemente avvinghiati sino al 1935, quando il regime mussoliniano tenterà di ridiscutere gli equilibri mediterranei. Vanamente.
Torniamo al 1713. Da subito Vittorio comprese che la difesa del suo nuovo dominio isolano era una faccenda terribilmente impegnativa per le forze sabaude, ridotte di numero e prive di un significativo supporto marittimo. Per recarsi a Palermo il sovrano non disdegnò d’imbarcarsi, assieme a seimila suoi soldati, su navi inglesi e all’indomani dello sbarco richiese alla Royal navy una pattuglia di ufficiali e tecnici per costruire una, seppur piccola, marina da guerra. Con il non disinteressato sostegno albionico, venne formata una squadra di cinque galee a cui si aggiunsero tre velieri, i primi vascelli d’alto bordo ad innalzare la bianca croce di Savoia.
La parentesi siciliana si concluse nel 1720 con l’impari scambio, imposto dalle potenze della “quadruplice alleanza”, con la più povera e indifesa Sardegna. Nacque allora la Real marina sarda. Modestissima. Perduti i vascelli di linea, rimasti a Messina, restavano le galee e qualche unità minore, una componente appena sufficiente per i collegamenti con il Continente e a malapena capace a contenere i pirati barbareschi provenienti dal Nord Africa o annidati tra le isole di San Pietro e Sant’Antioco. Negli anni, sotto il comando dello scozzese James Patterson, la squadriglia venne rafforzata da nuove imbarcazioni e da un reparto di fanteria di marina; Cagliari fu fortificata e le torri costiere – 67 con 261 uomini di guarnigione – vennero ristrutturate e ai militi promessi premi di 18 lire per ogni pirata catturato e 6 per una testa mozzata…
Il mare iniziò ad appassionare sempre più Vittorio al punto che nel ’28 il parsimonioso re ordinò agli squeri veneziani la costruzione di un costosissimo Bucintoro – in realtà una peota da parata, lunga sedici metri e larga tre, fastosamente decorata dall’architetto di corte Filippo Juvara – per rappresentare ai terricoli sudditi torinesi la propria magnificenza, sublimata dalla nuova dimensione marittima sabauda. Il 2 agosto ‘31 l’imbarcazione risalì a remi o trainata da buoi il Po e arrivò al castello del Valentino il 2 settembre dove l’attendeva Carlo Emanuele III, da un anno nuovo sovrano, e la moglie Polissena d’Assia. Vittorio, ammalato e rinchiuso dal figlio nel castello di Rivoli, non vide mai il suo mini Bucintoro. Per un secolo e mezzo i Savoia utilizzarono la sfarzosa barca sul fiume cittadino come palcoscenico galleggiante per feste, cerimonie e matrimoni, sinché Vittorio Emanuele II la donò nel 1873 ai Musei Civici di Torino. Dopo un lungo oblio, la peota è stata mirabilmente restaurata e dal 2012 la si può ammirare in tutto il suo splendore nei grandiosi spazi della reggia di Venaria Reale.
Al netto dei litigi familiari, Carlo proseguì le politiche navali del padre e nel 1738 Sant’Antioco fu ripresa e ripopolata con gli esuli da Tabarca, l’antica colonia genovese affittata dal Barbarossa ai Lomellini. In onore del monarca i profughi edificarono il villaggio di Carloforte.
Nonostante le ristrettezze finanziarie Carlo e il successore Vittorio Amedeo III continuarono a sostenere l’armata navale e il commercio marittimo. Radiate le ultime galee, altri velieri furono acquistati in Inghilterra e Olanda, a Nizza fu aperto il nuovo porto mercantile di Limpia e nel 1749 un editto reale consentiva ad ogni straniero di stabilirsi e negoziare in città, compresi i non cattolici purché non facessero opera di proselitismo ed evitassero ostentazioni religiose.
Nel 1763, dopo l’ennesima incursione algerina, Torino decise di rafforzare la flotta con una coppia di speronare da affiancare ai due velieri appena acquistati in Inghilterra. Una forza ancora ridotta ma sufficiente, quando Genova vendette la Corsica alla Francia, per occupare nel 1767 l’arcipelago della Maddalena e respingere nel 1772 una agguerrita spedizione tunisina. Nel 1770 lo scalo ligure di Loano venne inglobato nel regno e a Villafranca sorse una scuola navale e si costruirono magazzini, cantieri, una diga foranea, bagni per i forzati musulmani (con annessa moschea) e un bacino di carenaggio a “forma delle galee” ancor oggi utilizzato per i grandi yachts. Sforzi importanti per le depauperate casse sabaude ma dagli esiti discordanti. Nulla di strano. Ieri come oggi una cultura marittima e una dottrina navale non s’improvvisano e non s’inventano. Non basta costruire una flotta e investire risorse, occorrono spirito rivierasco, quadri preparati, tecnologie adatte e prospettive lunghe. Fattori che ai sardo-piemontesi ancora mancavano. Malgrado la supervisione degli esperti stranieri, le professionalità rimasero insufficienti, gli equipaggi non omogenei, la manutenzione scarsa e continuarono a difettare velerie, cime, polveri e palle di cannone; i progetti di modernizzazione, come quello di una cantieristica nazionale, si rivelarono infine diseconomici o fallimentari come l’abortita Associazione per il Commercio Marittimo, un velleitario tentativo d’aprire una linea per le Antille.
La ripresa dal 1778 delle scorrerie saracene, con unità sottili meno protette ma più veloci delle costose fregate, costrinse Vittorio Amedeo a mantenere in servizio solo il San Vittorio, unico veliero costruito in patria, e vendere gli altri vascelli per ritornare alla propulsione remica con l’acquisto, nel 1782 a Napoli, di due mezze galere, navi di 30 metri che univano ai quaranta remi una buona prestazione velica e un’accettabile tenuta di mare. Un passo necessario per l’impellente difesa della Sardegna e del litorale nizzardo; sebbene ridotta al ruolo di pattugliamento costiero, la flottiglia diede buona prova e, per quanto tecnicamente superate, le mezze galere, estremamente veloci e manovriere, si dimostrarono particolarmente adatte per la caccia alle feluche e agli sciabecchi barbareschi. In quell’estenuante confronto con un nemico imprevedibile e sfuggente un giovane ufficiale si distinse particolarmente: Giorgio Des Geneys. Un nome che rincontreremo.
(Pubblicato il 18 maggio 2023 © «InsideOver» – Storia)