di Paolo Rastelli
Un’operazione condotta con “scarsa capacità di giudizio e scadente lavoro di gruppo”. Così, con un linguaggio burocratico-manageriale tipico delle forze armate degli Stati Uniti, un ufficiale dell’USAAF, la United States Army Air Force, l’aviazione dell’esercito americano, definì il fallimento di un attacco ad alcuni impianti industriali vicino a Milano lanciato il 20 ottobre 1944.
Ma dietro quelle scarne parole ci fu una realtà di carne, terra, sassi, polvere di mattoni e tanto sangue. Sangue soprattutto di bambini, 184 allievi della scuola elementare Francesco Crispi uccisi, insieme a 19 tra insegnanti e collaboratori, da una bomba da 225 chilogrammi che sfondò il tetto dell’istituto e scoppiò sulle scale affollate da chi cercava disperatamente una fuga o un rifugio. Una strage, quella dei “piccoli martiri”, ben viva nella memoria degli abitanti di Gorla, un quartiere a nord est della metropoli lombarda che adesso dà anche il nome a una stazione della metropolitana: alle vittime sono stati dedicati una piazza, una cripta e un monumento, una donna velata che tiene sulle braccia un bimbo esanime, la cui vista ancora oggi stringe il cuore.
Il titolo, Finché sono al mondo, è tratto da una frase che pronuncia una di loro, Graziella Ghisalberti, 87 anni, (“La Lella” per i suoi amici). «Il filmato» dice Nucini, un passato pluriennale al periodico Vanity Fair, ora autrice di podcast e al suo esordio (felice) nella realizzazione di documentari «nasce proprio dal desiderio di coloro che sono rimasti di impedire, appunto finché sono ancora in grado di ricordare e narrare, un nuovo oblio, che è il loro grande tormento». Un desiderio realizzato in pieno, almeno per il momento, visto che il 14 ottobre a Gorla è andato, in visita privata, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, esaudendo così una richiesta proprio della “Lella” che aveva chiesto di vedere, lì nel suo quartiere a ricordare chi non c’è più, «il Mattarella con i corazzieri», al quale, racconta ancora Nucini, «ha mandato i bacini quando è arrivato».
Il 20 ottobre del 1944, ricordano oggi gli scolari di allora, era una giornata di sole, nonostante l’autunno. La scuola era cominciata da pochi giorni e anche per quello molte famiglie erano tornate dalla campagna o dalle altre province, dove erano sfollati durante la primavera-estate. In quei mesi c’erano stati al Sud i furiosi combattimenti che avevano portato le truppe anglo-americane a liberare Roma e Firenze e poi salire ancora più su, verso l’Appennino tosco-emiliano dove i tedeschi avevano allestito la linea Gotica che avrebbe fermato gli Alleati fino all’aprile del 1945.
Una bella giornata di sole è anche un tempo ideale per i bombardieri. Così quella mattina tre gruppi di quadrimotori B-24 Liberator della 15° Air Force, che operava dalla Puglia, «si dirigono su Milano per bombardare tre stabilimenti industriali che l’intelligence alleata ritiene ancora particolarmente impegnati ed efficienti nella produzione italiana sotto il controllo dei tedeschi» (Gioannini M. e Massobrio G., Bombardate l’Italia).
Due dei tre gruppi raggiungono e colpiscono gli stabilimenti Isotta Fraschini e Alfa Romeo. Il terzo, che porta il numero identificativo 451 ed è destinato alla fabbrica Breda in zona Sesto San Giovanni, a nord del capoluogo lombardo, si perde, non trova l’obiettivo e decide di rientrare. Tornare alla base con le bombe innescate è però vietato dai regolamenti e allora gli equipaggi che hanno ancora il carico se ne liberano subito, senza aspettare di essere sul mare o in aperta campagna.
Gli ordigni piombano su Gorla e il vicino Precotto, facendo una strage di civili. In totale in città a fine giornata si contano circa 600 vittime, non tutte nei due quartieri perché anche gli altri gruppi di bombardieri non sono stati precisissimi e hanno dato il loro contributo al totale delle vite strappate.
La strage non è voluta, è frutto di un errore, che viene riconosciuto ma subito dimenticato nel quadro generale dei bombardamenti terroristici europei, quelli diretti contro la popolazione, in cui si stima morirono circa 600.000 civili mentre i feriti gravi superarono il milione (Overy R., The Bombing War). Così i bambini della Crispi entrarono tra quelli che oggi chiameremmo “danni collaterali”, anche perché le forze armate americane tacquero sull’episodio sia durante la guerra che dopo la sua conclusione.
«Solo nel 2019» sottolinea Nucini «la console per il Nord Italia, Elisabeth Lee Martinez, mandò un messaggio di condoglianze al sindaco di Milano Beppe Sala». Lettera che tuttavia non chiese scusa e che per questo fu definita «ben poca cosa» dall’allora assessore regionale lombardo alla Sicurezza, Riccardo De Corato (Fratelli d’Italia). La propaganda della Repubblica Sociale Italiana, lo stato controllato dai tedeschi messo in piedi da Benito Mussolini dopo l’armistizio dell’8 settembre, si impadronì subito della strage per accusare gli Alleati di uccidere volontariamente donne e bambini. E nel corso degli anni in qualche caso la ricorrenza è stata politicamente celebrata dai movimenti dell’estrema destra.
La politica e il suo protagonismo nulla hanno a che vedere con il desiderio dei superstiti di recuperare la memoria del massacro. «Da parte loro» spiega Nucini «non c’è alcuna voglia di esibizionismo, sanno che la salvezza è stata casuale, questione di secondi o di centimetri. Ma dopo il lungo silenzio vogliono riaffermare il legame con chi non c’è più». È anche un modo, per chi allora scampò, di elaborare un antico lutto, la “colpa dei sopravvissuti” che per anni perseguitò i loro genitori nei confronti dei vicini meno fortunati. Per quelli che sono nati subito dopo, nelle famiglie colpite, chiamati in qualche modo a sostituire i figli perduti, ci fu invece il trauma di non riuscire a riempire un vuoto per sua natura incolmabile. «In tutti poi» conclude Nucini «abbiamo trovato una specie di addolorato stupore che a tanti anni da quelle morti e da quella guerra ci siano ancora, in tante parti del mondo, in Ucraina e a Gaza, bambini che muoiono sotto le bombe, uccisi da nuove guerre».
(Pubblicato il 3 novembre 2024 © «Corriere della Sera» – Sette)