di Eugenio Di Rienzo
Il volume di Valentina Sommella, Carlo Galli, la diplomazia italiana e le relazioni fra Italia e Turchia. Dalla crisi dell’Impero ottomano alla nuova Turchia kemalista edito da Rubbettino Editore, ripercorre con maestria l’itinerario biografico del diplomatico italiano Carlo Galli, legato strettamente alla storia dei rapporti tra Italia e Turchia dal 1911 al 1938, anno del prematuro collocamento a riposo di Galli ma anche della scomparsa di Mustafa Kemal che in quegli anni impresse una svolta decisiva alla politica interna ed estera turche.
Carlo Galli incontrò per la prima volta l’Oriente ottomano quando nel luglio 1911 fu inviato dal ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano come «Ultimo Console d’Italia a Tripoli», alla vigilia della conquista italiana della Libia. Il giovane Galli, entrato al Ministero nel ruolo consolare nel 1904 e al tempo ancora viceconsole, fu fiero della nomina in una destinazione importante, al centro della politica estera del Paese. Fu quindi testimone diretto di un deciso colpo che, con l’invasione italiana della Tripolitania, fu inferto all’Impero ottomano che, com’è noto, in quegli anni era il protagonista della questione orientale ed era considerato il grande Malato d’Europa. Al tempo Mustafa Kemal era uno dei protagonisti della resistenza antitaliana in Libia, ove si era recato come mücahit (“volontario”), pur nella consapevolezza che dal punto di vista turco si trattava di un’impresa estremamente difficile.
Il secondo incontro con questioni turche avvenne in occasione della Conferenza della Pace di Parigi ove Galli fece parte di una sottocommissione incaricata di risolvere il problema turco-ottomano. Nella stesura del trattato di Sèvres non venne però seguita la linea indicata dal conte Carlo Sforza, già alto Commissario a Costantinopoli all’indomani dell’armistizio di Mudros e fautore di una «politica di simpatia» nei confronti dei Turchi e dei kemalisti in particolare, di cui il conte fu tra i primi in Italia – e a livello internazionale – a intuire la forza e il potenziale. Con Sforza Galli collaborò fattivamente, condividendone l’approccio filoturco al punto da giudicare «fragilissimo» il documento firmato a Sèvres: «non vale l’inchiostro che è costato» fu il lapidario commento espresso dal diplomatico italiano all’amico e collega Mario Lago nel giorno stesso della firma, il 10 agosto del 1920.
Ugualmente Galli fu testimone della genesi dell’accordo Tripartito, ovvero l’accordo tra Francia, Gran Bretagna e Italia che definiva le reciproche zone d’influenza in Turchia, proposto dal ministro degli Esteri britannico Lord George Curzon fin dalla metà del febbraio 1920. L’accordo Tripartito avrebbe assicurato i privilegi concordati tra gli Alleati, la priorità̀ economica dell’Italia nell’Anatolia meridionale, della Francia in Cilicia e nella parte del Kurdistan vicino alla Siria, mentre la Gran Bretagna non fu soddisfatta della stesura finale dell’accordo che definì «un buon affare franco-italiano senza contropartita». Ma Mustafa Kemal rifiutò con determinazione la spartizione del territorio anatolico, continuò la sua battaglia contro i Greci a cui durante la Conferenza di Pace era stata assegnata Smirne e, dopo averli sconfitti, poté negoziare a Losanna delle clausole più favorevoli per la nuova Repubblica turca. Fin dall’aprile 1920 Kemal era infatti stato nominato presidente della nuova Assemblea Nazionale di Ankara, la Türkiye Büyük Millet Meclisi, che il 1° novembre del 1922 aveva dichiarato decaduto il governo e il potere temporale del Sultano Mehmed VI, costretto a lasciare Istanbul e a rifugiarsi a Malta sotto protezione britannica.
Le conoscenze strette da Galli con gli esponenti kemalisti in quegli anni gli sarebbero poi state utili nel periodo in cui fu nominato Ambasciatore ad Ankara dal 1935 al 1938, impegnandosi a fondo per migliorare i rapporti italo-turchi in un momento particolarmente delicato della politica estera italiana durante il fascismo. Durante la permanenza di Galli ad Ankara emersero infatti i timori turchi relativi alle rivendicazioni imperialistiche dell’Italia fascista, con il sospetto che potessero riaffiorare le richieste sui territori dell’Anatolia e che sarebbero potute partire eventuali offensive aeree dalle basi italiane fortificate nel Dodecaneso. Le relazioni italo-turche in quegli anni appaiono inoltre fortemente condizionate dai rapporti tra l’Italia e la Gran Bretagna che costituiva per la Turchia un solido punto di riferimento sia per quanto riguardava le sanzioni, varate contro l’Italia dalla Società delle Nazioni in seguito alla guerra d’Etiopia, sia nella questione della revisione dello statuto degli Stretti, cui Atatürk teneva moltissimo e che riuscì a ottenere con la Convenzione di Montreux.
Dal suo osservatorio privilegiato, Galli fu inoltre testimone diretto dei notevoli cambiamenti di cui Atatürk si fece promotore in politica interna, rinnovando completamente la vecchia Turchia e favorendo la formazione di uno Stato laico e nazionalista in luogo del regime teocratico ottomano e del Sultanato. Galli poté infatti assistere alle riforme che furono varate a livello sociale ed economico, all’eliminazione delle capitolazioni, al ridimensionamento delle imprese straniere che operavano nel Paese, e alla fine delle concessioni, tra le quali quelle di Eraclea per cui la diplomazia italiana si era molto spesa. Ne rimase profondamente colpito e impressionato, ma molto acutamente notava anche come questi cambiamenti – così radicali nella loro distruzione completa del Califfato e del Sultanato – fossero avvenuti in maniera talmente repentina da rappresentare in un certo senso anche la negazione, non soltanto di un passato che per lungo tempo era stato glorioso, ma anche della stessa «essenza nazionale» del Paese.
Le questioni relative alla Turchia diventarono quindi per il diplomatico italiano una seconda area di particolare competenza, che affiancò quella iniziale relativa alle questioni danubiano-balcaniche, che gli derivava dalle altre esperienze effettuate e ricostruite da Valentina Sommella in uno studio monografico precedente. Le nuove conoscenze acquisite in loco da Galli furono molto apprezzate dalla diplomazia turca, come dimostrò il rammarico espresso dal ministro degli Esteri turco Tevfik Rüştü Aras che, appresa la notizia del pensionamento dell’ambasciatore italiano, sottolineò come egli, insieme al conte Giuseppe Volpi, fosse una delle uniche due personalità in grado di svolgere un’azione veramente efficace nei rapporti tra le due Nazioni. Questo suggerimento di Aras fu colto dal Ministero degli Esteri italiano diversi anni dopo, nel 1952, quando Galli fu scelto dal ministro Maurilio Coppini, al tempo direttore generale del personale, per svolgere la funzione di rappresentante italiano alla Commissione di Conciliazione prevista dall’art. 6 del trattato di amicizia italo-turco firmato a Roma nel marzo 1950 e poi ratificato nel giugno del 1951.
Attraverso uno spoglio sistematico dei documenti diplomatici italiani e stranieri e della documentazione inedita dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’autrice ha così ricostruito in modo dettagliato aspetti e momenti particolarmente significativi della politica estera italiana nei confronti della Turchia nella prima metà del Novecento. Ne consegue un lavoro di ricerca approfondito che fa emergere sfaccettature interessanti dell’atteggiamento dell’Italia liberale prima e fascista poi verso il nuovo ordine politico nel Mediterraneo orientale durante la crisi e dopo il crollo dell’Impero ottomano, contribuendo in maniera notevole a una migliore conoscenza di un Paese che in Italia rimane, con rare eccezioni, poco studiato e quindi compreso soltanto in parte.
C’è da sottolineare, infine, che l’autrice del volume si distacca dal modello, tuttora disgraziatamente in gran voga, dove la storia della diplomazia si riduce a una giustapposizione di profili biografici, in maggioranza apologetici, di Ministri plenipotenziari, Ambasciatori, Consiglieri e Segretari di Legazione, analizzata esclusivamente nei loro rapporti con il Governo nazionale. E quindi quasi sempre avulsa, necessariamente, dal contesto internazionale e da quello interno dei Paesi dove furono accreditati, con il quale questi civil servants d’eccezione si trovarono a confrontarsi. Senza considerare, cioè che la storia della diplomazia può avere significato solo a condizione di immergersi nel più vasto mare della storia generale.
(Pubblicato il 5 novembre 2024 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)