di Alessandro Gnocchi
Ci vuole fegato per essere un avvoltoio. Il fegato, di certo, non mancava a Gabriele d’Annunzio e neanche la rapacità dell’avvoltoio. Si capisce benissimo da un interessante (e divertente) libro di Eugenio Di Rienzo: «Ariel armato e alato». Gabriele D’Annunzio e la Grande Guerra aerea italiana (Società editrice Dante Alighieri, pagg. 82, € 6,00). Di Rienzo raccoglie numerosi documenti sulle imprese del Vate a bordo di un aeroplano militare. Ci sono lettere, studi tattico-strategici e soprattutto Il fegato e l’avvoltoio. Diario dell’impresa di Cattaro (22 settembre-5 ottobre 1917). Il diario è composto da due strepitosi taccuini composti in volo, durante l’impresa. Nel primo, D’Annunzio, a capo del raid, descrive l’avvicinarsi della squadra all’obiettivo. Nel secondo, impartisce gli ordini al pilota, il capitano Maurizio Pagliano, non potendo comunicare a voce, a causa del rumore. Il pilota, poi, trasmette al resto della squadra i messaggi del comandante. Sembra di essere sul campo insieme a Gabriele d’Annunzio, in confronto le serie tv non hanno suspense.
I due taccuini furono stampati, in anastatica, nel 1928 per iniziativa di Arnoldo Mondadori. Il volume fu tirato in cento esemplari fuori commercio dall’Istituto Nazionale Dannunziano. Inutile dire che sono quasi introvabili anche sul mercato antiquario. Vale la pena di ricordare l’importanza di questo attacco a sorpresa fortemente voluto, quasi contro le gerarchie, da un ardimentoso Vate. La base di Cattaro, città oggi montenegrina, era stata un avamposto della Repubblica di Venezia fino al 1797 quando entrò a far parte dei possedimenti della monarchia asburgica. Il porto era in una posizione strategica. Lì accanto sorgevano i cantieri di Teodo. Dalle piste nei pressi di Cattaro partivano gli aerei che bombardavano gli obiettivi nell’Adriatico. Cattaro era considerato un porto inespugnabile a causa della conformazione della costa, quasi un fiordo. D’Annunzio però aveva un’idea. Partire con una squadriglia di aerei, volare basso, attaccare senza essere visti, fuggire dopo aver distrutto la base. Era così convinto da mandare a quel paese i suoi superiori e in particolare l’ammiraglio Acton. Di Rienzo raccoglie lo scambio epistolare tra i due, con l’inferiore in grado che dà del traditore al suo capo…
La spedizione iniziò male. La nebbia rendeva invisibili i segnali luminosi provenienti dalle torpediniere. I piloti si orientarono con bussola e stelle. I 14 velivoli diventarono 12. Due dovettero tornare indietro per un guasto dopo un’ora di volo. La squadriglia sganciò le bombe da tremila metri di altezza, devastò i sottomarini in rada e i depositi di benzina, quindi fuggì e toccò terra a Gioia del Colle nella tarda nottata del 5 ottobre 1917. La contraerea nemica non riuscì ad attivarsi. «Ariel» aveva visto giusto, la missione fu un successo.
Pubblichiamo uno stralcio dei taccuini di Gabriele D’Annunzio relativi all’impresa di Cattaro. Il Vate, con dodici aerei, fece un attacco a sorpresa al porto di Cattaro, oggi in Montenegro, all’epoca base di cruciale importanza per la monarchia asburgica. Nella notte del 5 ottobre 1917, la squadra di D’Annunzio, che aveva ideato il piano, arrivò così all’improvviso da non trovare quasi opposizione. La contraerea non riuscì ad attivarsi. I taccuini furono pubblicati una sola volta, nel 1928 ma si possono ora leggere nel libro di Eugenio Di Rienzo.
di Gabriele D’Annunzio
Si risogna la sera di San Francesco, si risogna la notte di Cattaro. Si riassapora quella gioia di guerriero che non somiglia ad alcun’altra e che poteva rimanermi ignota se la sorte non mi avesse gettato nella guerra dopo tanti anni di tristezza, alla fine del mio vigore.
Rivedo i miei sette velivoli in armi, schierati su quel campo squallido della Puglia estrema, in ordine di partenza. Primo il mio, nella doratura dell’ultimo sole che si riflette sopra le carlinghe lisce come se fossero fatte di lastre d’avorio connesso con arte bisantina. Li esamino a uno a uno. Salgo a prua, osservo gli strumenti di bordo, provo con le nocche il suono dei serbatoi, Son pieni fino al tappo, colmi. Comincio a soffrire della sera troppo lenta. Si dice che il vecchio Pan avesse il torace azzurro; ma l’aviatore in attesa ha tutto il cielo nel petto inquieto.
Ecco che la luna è già alzata! Il faro del San Michele è già acceso. Gli apparecchi sono in silenzio, con un poco di luna su l’avorio della carlinga. L’ultima mezz’ora è un’eternità. Non posso più sopportare intorno a me la ressa. Ho un bisogno disperato d’esser solo, dietro il mio schermo di mica, dietro la mia mitragliatrice nera appuntata come un telescopio verso la mia stella. Avvolgo alla sbarra che sostiene la prua il guidone azzurro dell’Orsa. Il mio soldato, invece di prendere il cordone del medesimo colore, ha preso un nastro nero, un nastro funebre. Lego con quello il guidone avvolto; e una quiete si fa in me, d’improvviso. La guazza è tanta che l’apparecchio è tutto bagnato come se avesse ricevuto un acquazzone. Cova i due «giacomini», le due granate da 260 accoppiate.
Il meccanico mette in moto il motore. Il rombo mi assorda. Le fiamme verdi, rosse, turchine, gialle, versicolori come il velo d’Iride irrompono dai tubi di scarico. Salgo a prua, e dispongo le mie cose intorno al seggiolino. Colloco le mie carte, i miei taccuini, i miei guanti, i miei calzari, il mio colare di salvezza, il mio salvagente, il tubo pieno di thè caldo. Ridiscendo, saluto, mi metto la cuffia: già assente, già lontano. Risalgo. Occupo il mio posto.
I due piloti sono già alle leve, mascherati. Luigi Gori ha il suo solito bavaglio verde, il suo aspetto bizzarro di bautta dagli occhi demoniaci. Maurizio Pagliano è grave, raccolto e attento come un organista davanti alle sue tastiere, tra registi e pedali prima di cominciare toccata e fuga, mentre già lavorano i mantici. Il canto dei motori è pieno. Le frecce di fuoco svariano nei colori, palpitano nella vibrazione della rapidità frenata. Vedo sotto la prua le mani che si tendono nell’estremo augurio. Vedo laggiù, in fondo al campo, i fasci bianchi dei fari. Si parte! Si parte! Credo che la mia volontà stessa sollevi le ali, tanto è tesa dal desiderio della lontananza. Si parte!
Ho davanti a me la notte ignota, il mare aperto, le stelle attenuate dal bagliore lunare. Mi sollevo a prua, e getto l’alalà. Odo il clamore che risponde, scorgo le mani che si agitano. L’apparecchio rulla, si stacca dalla terra, s’impenna come Pegaso verso le costellazioni. L’Orsa è a sinistra. Vedo i due fari convergenti di Conversano. Sono deboli. Vedo il proiettore del Settimo gruppo delle siluranti, del gruppo che incrocia a dodici miglia dalla nostra costa. È molto potente. Mi sporgo nel vento a scrutare il terreno. Ho in me una così grande pienezza di vita che quando mi chino mi sembra di traboccare. Vedo i nastri bianchi delle vie. Con un brivido profondo, indovino la massa dell’acqua. Ecco la riva sparsa di macchie biancastre, e una via litoranea che la segue. La sorpassiamo. Eccoci sul mare! Eccoci sull’Adriatico amarissimo e amatissimo! Il proiettore navale splende davanti a noi e ci segna la rotta. L’Adriatico è quieto, sottomesso all’incanto della luna. Siamo ormai soli con la nostra sorte.
Momento eroico di accettazione e di pacificazione. L’anima si agguaglia agli elementi, diventa notturna e stellata. È sospesa tra cielo ed acqua, come una sfera che sia piena a metà d’acqua e a metà di cielo. Il cuore è attraversato da una corrente melodiosa, come nel principio della creazione di un poema. Non sto per creare la mia avventura?
(Pubblicato il 2 febbraio 2023 © «il Giornale» – Letteratura – Scelti per voi)