di Federico Imperato
A più di quarant’anni dalla sua scomparsa e a circa trenta dalla tragica conclusione di quell’esperimento di convivenza tra le nazionalità slave del sud che fu la Jugoslavia socialista, la figura e la biografia di Josip Broz detto Tito continuano ad affascinare e a suscitare innumerevoli spunti di indagine e ricerca a studiosi, giornalisti e analisti politici. L’ultimo, in ordine di tempo, ad essersi cimentato con la biografia politica di colui che fu il leader indiscusso del comunismo jugoslavo è stato Vojislav Pavlović, direttore dell’Institute for Balkan Studies SASA di Belgrado e uno dei maggiori conoscitori della storia della Jugoslavia monarchica e comunista e delle relazioni internazionali che nell’area balcanica vennero a intrecciarsi durante il secondo conflitto mondiale.
Il volume di Pavlović, Tito. L’artefice della Jugoslavia comunista edito da Rubbettino, nella collana “dritto/rovescio” diretta da Eugenio Di Rienzo, presenta un formato molto agile, ma, nello stesso tempo, soddisfa anche le esigenze di esaustività che possono provenire da un pubblico di lettori più attento, al punto da poter essere consultato anche da chi intenda approfondire temi come la nascita e l’evoluzione del socialismo jugoslavo o da chi voglia studiare la storia della Jugoslavia comunista. La scrittura di Pavlović non conosce fronzoli, riportando in tre capitoli i punti e i momenti salienti della biografia di Tito: dalla formazione rivoluzionaria, avvenuta negli anni Venti e Trenta del Novecento tra la Croazia e Mosca; alla conquista della leadership nella lotta contro il nazifascismo, a scapito del capo della pattuglia cetnica di Draža Mihailović, in qualità di capo delle forze partigiane jugoslave che si batterono con successo contro le forze di occupazione tedesche e italiane; fino all’affermazione come guida carismatica dello Stato jugoslavo, di cui Tito sarebbe rimasto fino alla morte il massimo dirigente, riunendo nella sua persona la prima carica sia dello Stato (come primo ministro fino al 1953 e poi come presidente), sia del partito (segretario generale fino al 1966 e poi presidente).
La linearità espositiva della scrittura di Pavlović si traduce anche in una notevole chiarezza interpretativa, sempre supportata dall’analisi di un’ampia bibliografia edita e dall’indispensabile rimando alle fonti archivistiche, provenienti, soprattutto, dagli archivi della Jugoslavia. Il ritratto che ne scaturisce è quello di una personalità complessa, controversa per alcuni aspetti, un leader naturale in grado di assurgere a «grande figura storica», un abilissimo uomo politico rimasto, però, senza eredità storica.
Tra gli aspetti più interessanti della biografia politica di Tito che Pavlović offre ai lettori è sicuramente la ricostruzione degli anni della formazione di colui che sarebbe divenuto il leader della Jugoslavia. Un percorso formativo che appare piuttosto in linea con quelli di altri futuri leader del comunismo mondiale e del Comintern stalinista. Josip Broz non poteva vantare una solida formazione teorica e per tutta la vita rifuggì dall’affrontare questioni di dottrina, affidandone l’approfondimento ad alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, come Milovan Djilas ed Edvard Kardelj. Le ragioni di queste caratteristiche del percorso formativo di Tito vanno cercate senz’altro nelle sue origini familiari e ambientali. Josip Broz nacque all’interno di una famiglia contadina croata (ma la madre era di origini slovene) e non ricevette un’istruzione di grado superiore, dovendo, sin da giovanissimo, arrabattarsi in mille mestieri – quasi sempre come operaio meccanico – peregrinando nei vasti territori dell’allora impero austro-ungarico, di cui la Croazia, all’epoca, era parte. Allo stesso tempo, si può a mala pena dire che nelle regioni slave del sud, che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, si sarebbero unite nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia), sia esistito un movimento socialista, almeno fino alla fine dell’Ottocento. Quando, agli inizi del Novecento, esso iniziò a prendere piede, non espresse alcun teorico di rilievo e non poté contare su nessun considerevole appoggio tra gli intellettuali. Molte istanze repubblicano-democratiche e populiste furono portate avanti da formazioni politiche di diversa ispirazione, come il Partito Contadino Croato di Stjepan Radić – un tipico partito portavoce delle istanze del mondo agrario, molto diffuso all’epoca nei Balcani e a cui lo stesso Josip Broz tentò, in un primo momento, di aderire – a cui i contadini croati sarebbero rimasti fedeli a scapito della propaganda socialista.
L’arrivo di Tito alla guida del Partito Comunista Jugoslavo fu un processo lungo che Pavlović traccia con dovizia di particolari ed efficacia, individuando due date limite: dal marzo 1923, quando iniziò davvero la sua militanza nel PCJ, al 1938, quando Tito dovette rientrare in Jugoslavia da Parigi per affermare la propria autorità sul partito. In questo senso, l’assunzione della leadership, da parte di Tito, fu, da un lato, il risultato della riaffermazione, operata dai comunisti all’interno della Jugoslavia, del loro diritto di scegliere la propria politica, dopo che i dirigenti del passato avevano cercato, senza successo, di imporre la loro direzione dall’esilio. Ma fu, soprattutto, come messo in evidenza da Pavlović, la prima volta che Tito, senza previo accordo di Mosca, creò la direzione del partito. In definitiva, si può affermare che la formazione politica di Tito sia tutta avvenuta all’interno dell’orizzonte comunista nella sua versione stalinista: una formazione teorica molto rudimentale («Tito non era un ideologo e non ha mai cercato di esserlo, e nell’era stalinista questo era praticamente impossibile»), cui faceva da contrappeso una notevole abilità organizzativa e di adattamento alle oscure manovre che caratterizzavano la precarietà della vita all’interno del Comintern. Non per nulla, come scrive ancora l’Autore, Tito è stato l’unico comunista jugoslavo, del gruppo che, fino a quel momento, aveva fatto capo a Milan Gorkić, a essere sopravvissuto alle purghe degli anni Trenta. Lo stalinismo sarebbe rimasto, anche dopo lo «scisma» del 1948 il suo orizzonte politico ed ideologico prevalente.
Il passaggio da leader del comunismo jugoslavo a condottiero del popolo degli slavi del sud costituisce la seconda fase individuata da Pavlović nella biografia politica di Tito. In questo senso, il punto di vista dell’Autore è molto interessante, specialmente quando individua una pluralità di conflitti che insanguinò il territorio jugoslavo nella prima metà degli anni Quaranta. Ad una guerra civile che le forze partigiane di Tito e i cetnici di Mihailović scatenarono contro l’occupazione delle forze dell’Asse, italiani e tedeschi, a partire dalla primavera del 1941, si aggiunse un conflitto etnico, voluto dagli ustascia, con l’obiettivo di liberare la Croazia e la Bosnia-Erzegovina dai serbi. I punti di forza di Tito, secondo Pavlović – ma, su questo punto, chi scrive deve per forza avvalersi di un elevato grado di semplificazione -, furono due. Uno interno, costituito dalle opposte strategie messe in campo da Mihailović, da un lato, e dal leader dei partigiani comunisti dall’altro: mentre il primo agì in gran parte sulla difensiva, con l’intento di non provocare le forze di occupazione, che avrebbero potuto vendicarsi sulla popolazione locale in Serbia, Tito, invece, scelse di porsi «all’avanguardia nella lotta contro i tedeschi», accompagnando le azioni militari con provvedimenti di natura politica, volti a iniziare a realizzare quel processo rivoluzionario sociale, che, come successo per la rivoluzione bolscevica del 1917, avrebbe potuto essere facilitato dalla guerra, secondo la concezione leninista-stalinista. Il secondo, di carattere internazionale, consistette nell’abilità di Tito a porsi come l’interlocutore privilegiato e più credibile per gli Alleati delle forze della resistenza jugoslava. Non fu soltanto Stalin, infatti, a sostenere la lotta dei partigiani comunisti sul territorio jugoslavo – in maniera piuttosto virtuale, in realtà: fornendo pochissimi aiuti militari e logistici –, ma anche Churchill, dopo le missioni di William Deakin e di Fitzroy MacLean, e Roosevelt dovettero riconoscere le grandi capacità politiche e militari del futuro Maresciallo di Jugoslavia. E così, già alla conferenza di Teheran, nel 1943, il governo statunitense era disposto a tollerare la creazione di una «sfera di influenza aperta» dei sovietici in Europa orientale. Il che significava «che il movimento di resistenza guidato dai comunisti avrebbe vinto la guerra civile».
Pavlović dedica poche righe allo «scisma» tra Tito e Stalin, concretizzatosi nel 1948. La storiografia sulla guerra fredda e sui sistemi comunisti che proliferarono in quella fase hanno già acquisito che la rottura tra Unione Sovietica e Jugoslavia non ebbe motivazioni ideologiche. Alla base vi fu, invece, la chiara volontà di Stalin di dirigere il movimento comunista internazionale subordinando le democrazie popolari agli imperativi della propria strategia. Nel caso jugoslavo, però, questo progetto si scontrava con tradizioni nazionali ben radicate, nate da un lungo passato di oppressione straniera. In un certo senso, la rottura tra Tito e Stalin fu il caso limite di una dialettica che avrebbe caratterizzato e percorso tutta la storia del blocco comunista fino alla sua dissoluzione: quella tra centralismo sovietico e socialismi nazionali, che si sarebbe rimpinguata negli anni con i casi dell’Ungheria del 1956, della Romania negli anni Sessanta e della Cecoslovacchia della «Primavera di Praga».
Per Pavlović, quindi, lo «scisma» jugoslavo costituisce quasi un espediente narrativo che gli permette di delineare il modo in cui Tito continuò a portare avanti il suo esperimento di comunismo jugoslavo e ad uscire dalle secche di un isolamento internazionale tanto pesante quanto grave era la situazione economica e sociale di un paese devastato dalle distruzioni del secondo conflitto mondiale. Per quanto riguarda il primo aspetto, la soluzione trovata da Tito e da tutto il gruppo dirigente comunista jugoslavo fu la cosiddetta autogestione come criterio base dell’economia nazionale, ossia l’istituzione, all’interno delle singole unità produttive dell’industria jugoslava, dei consigli operai, un sistema che avrebbe dovuto condurre ad una democrazia diretta reale, distruggendo il burocratismo. In campo internazionale, invece, Tito decise di muoversi formalmente al di fuori dei due blocchi politici, economici ed ideologici che dominavano all’epoca il sistema mondiale, attraverso la leadership del movimento dei Non Allineati. In realtà, sviluppando forse all’estremo l’analisi di Pavlović, si può dire che Tito governò sulla Jugoslavia avvalendosi di un doppio allineamento: politico e ideologico al comunismo sovietico, basato su un’economia statalista che, anche in Jugoslavia, «continuò a dettare il valore dei beni prodotti dall’economia del Paese», ed economico agli Stati Uniti e alle potenze occidentali, dal momento che la stessa «”via jugoslava al socialismo” fu finanziata dagli aiuti occidentali che assicurarono la sopravvivenza economica e, quando necessario, anche la difesa della Jugoslavia di Tito, per mantenere a galla l’unico Paese comunista al di fuori del blocco sovietico». La stessa leadership dei non allineati diede, secondo Pavlović, «risultati limitati».
Ciò che Tito non riuscì a governare furono le forze centrifughe nazionali che costituirono l’aspetto negativo di una crescita economica che fece della Jugoslavia «un posto migliore in cui vivere rispetto al resto dei satelliti sovietici e della stessa URSS». Il modello federale dello Stato jugoslavo fu replicato a livello di partito, con la trasformazione del Partito Comunista Jugoslavo (PCJ) in Lega dei Comunisti di Jugoslavia (LCJ). Gli squilibri nella crescita economica del paese, tra un Nord industriale e urbanizzato e un Sud agricolo e arretrato rinfocolò i particolarismi. La Primavera croata fu sia «il miglior esempio di come la democratizzazione della società in un Paese comunista non possa essere controllata», sia la presa d’atto della nascita di una nuova generazione di leader croati espressione di un orientamento sempre più nazionalista dell’opinione pubblica. In tutto questo, Tito, leader sempre prestigioso ma ormai anziano, sembrava dare l’impressione di riuscire soltanto a «seguire gli eventi e non di dirigerli». E a nulla valse il perseguimento di una politica estera basata sulla distensione e sulla convivenza internazionale, concretizzatasi anche nella soluzione della contesa confinaria con l’Italia, risoltasi con la firma dei Trattati di Osimo, avvenuta il 10 novembre 1975. La morte di Tito, avvenuta nel 1980, avrebbe scoperchiato il vaso di Pandora di vecchi e nuovi rancori tra le nazionalità della Jugoslavia, destinata a cessare tragicamente di esistere a distanza di circa un decennio.
Nel ritratto che viene fuori dal conciso, ma denso, volume di Pavlović, emerge l’unicità e la tragicità di un leader che non avrebbe avuto successori e il cui operato non avrebbe potuto durare perché le sue basi erano poggiate sulle condizioni storiche e geopolitiche dell’epoca. Caduto il muro di Berlino, l’ideologia comunista jugoslava ha ceduto il passo ai nazionalismi e ai particolarismi portatori di un retaggio storico più antico e profondo. A quel punto, secondo Pavlović, la Jugoslavia non aveva più ragione d’essere neanche da un punto di vista geopolitico, disgregandosi, «perché non era più necessaria dopo la scomparsa del pericolo sovietico».
(Pubblicato il 12 settembre 2023 © «Storia GLocale» – Recensioni)