di Susanna Schimperna
Il 13 aprile 1733 il gesuita e missionario Ippolito Desideri lascia il corpo per riunirsi al Padre in cui non ha mai smesso di credere, nonostante le traversie, le opposizioni, le snervanti vicende e infine la decisa chiusura che proprio dai vertici della Chiesa, in nome della quale ha sempre operato, abbiano reso prima tanto complicata la sua missione e poi stroncato il suo sogno.
Un sogno grandioso: evangelizzare il Tibet. Un sogno che aveva radici ben salde nel lungo soggiorno del missionario in quel Paese remoto, nei suoi studi approfonditi (unici) della lingua, dei costumi, della mentalità degli abitanti.
Di ritorno a Roma a gennaio del 1728, dopo aver riordinato i suoi diari di viaggio li aveva sottoposti ai superiori per spiegare meglio il suo progetto, ma considerazioni politiche avevano prevalso. Tra Curia e Compagnia del Gesù non correva buon sangue, la Compagnia era malvista e temuta perché troppo potente, con ramificazioni in tutto il mondo. Dato che anche i cappuccini erano ansiosi di evangelizzare il Tibet, a questo scopo erano già riusciti a ottenere un ordine scritto del preposito generale degli Ignaziani, con cui a Ippolito era stato ingiunto di lasciare immediatamente il Tibet. Adesso, i vertici della Chiesa chiusero la questione dando piena ragione proprio ai cappuccini, e a padre Ippolito fu ordinato di non trattar mai più della “materia”.
Racconta la vita avventurosa di quest’uomo prodigioso un capitolo emozionante e accurato del libro «Viaggiatori straordinari, storie, avventure e follie degli esploratori italiani» di Marco Valle (ed. Neri Pozza), in cui l’autore presenta le biografie, appunto, di alcuni uomini “eccentrici, sorprendenti, inquieti”, come li definisce lui; uomini che, tra il Settecento e il Novecento, partirono per terre sconosciute, animati ufficialmente da propositi diversi (evangelizzare, cercare diamanti, effettuare studi geologici…), ma in fondo ansiosi di liberarsi delle convenzioni di una società in cui si riconoscevano poco. E affascinati dall’Altrove.
Nato a Pistoia nel 1684, Ippolito Desideri entra nella Compagnia del Gesù ad appena sedici anni, e subito si appassiona allo studio delle lingue orientali. I gesuiti, che già hanno cominciato ad evangelizzare l’Asia, gli affidano una missione estremamente difficile: riuscire laddove i cappuccini avevano fallito, cioè stabilire una missione in Tibet. L’approccio gesuitico è particolare, colto, aperto. Capire le diverse civiltà, cercare di trovare i punti comuni per quello che oggi si chiamerebbe “dialogo interculturale”. Un approccio che non piace affatto alla Curia.
Il 18 marzo 1713, dopo tre anni e mezzo di viaggio, Ippolito raggiunge Lhasa, la città santa. Con semplicità espone al re lo scopo della sua missione, convertire il popolo al cattolicesimo. Lhabzang Khan si mostra disponibile, solo lo invita ad approfondire prima la conoscenza del Paese, degli abitanti, del buddhismo. Come racconta Ippolito stesso e riporta Valle: «Presi questo tenore che continuai per lo spazio di quasi sei anni, cioè di studiar da mattina a sera, e per farlo più comodamente differivo il pranzo a notte sostenendomi il giorno col bever del cià (tè al burro di yak, n.d.a.)». Una volta padrone della lingua, si immerge nello studio delle opere principali e addirittura arriva a scrivere un libro in versi tibetani, «L’Aurora», dialogo fra un padre cattolico e un uomo che cerca la verità. Il re accoglie bene il libro, ma consiglia al padre gesuita di continuare a studiare…
Altri anni di studi, chiuso nelle lamaserie (università teologiche), e altri scritti. Ippolito esplora anche il Tibet sudorientale, i confini con l’India dove vivono i temuti lopa che invece lui, senza paura, avvicina per studiarne le usanze e la lingua. Intanto il Tibet è sconvolto dalla guerra. Prima l’invasione mongola e l’uccisione del re, poi l’intervento dei Cinesi, che restaurano la teocrazia lamaista ma chiedendo in cambio che il Tibet rinunci alla piena indipendenza.
Torna la pace, e Ippolito si appresta a proporre la sua formula ai saggi tibetani. Si è infatti convinto che, pur seguendo una religione senza Dio, in realtà questo Dio i Tibetani lo ammettano, e dunque sia possibile una conversione che tenga conto della tradizione himalayana.
È entusiasta, fiducioso che i saggi accolgano il suo progetto. Ma arriva l’ordine di rientro immediato. Obbediente, padre Ippolito lascia il Tibet e affronta un altro lunghissimo viaggio, questa volta per Roma.
(Pubblicato il 12 aprile 2024 © «Huffington Post» – News)