di Roberto Boldrini
«Create una ‘piazza’ affollata di lettori. Così il quotidiano diventa bandiera, strumento e segno di vittoria». Nell’esortazione di Alcide De Gasperi ai giornalisti de «Il Popolo», all’alba degli anni Cinquanta, c’era la consapevolezza dell’anomalia in cui si dibatteva la stampa democristiana: difficoltà ad aprirsi la strada verso i lettori/elettori a fronte di un amplissimo bacino elettorale. Come superare l’impasse della scarsa diffusione e trovare magari una terza via oltre l’ufficialità e il fiancheggiamento più o meno esplicito?
Il corposo case study di Federico Mazzei, C’era una volta la stampa democristiana. Il «Giornale del Mattino» di Ettore Bernabei nella Firenze di Giorgio La Pira (1951-1956) (Edizioni Studium, 2023) affronta la questione analizzando il «Giornale del Mattino», quotidiano fiorentino riconducibile alla costellazione della stampa democristiana che, specialmente dal 1954, cercò di coniugare un lavoro giornalistico orientato a bilanciare politica locale e nazionale con spazi di autonomia nell’approfondimento dei cambiamenti della società.
Il modello dei partiti che producono comunicazione con un house organ si rivelò in realtà complesso da percorrere anche per gli altri partiti, dopo il periodo eroico del primo dopoguerra, e il lavoro di Mazzei lo dimostra offrendo sempre dei correlativi rispetto alla vicenda del Giornale del Mattino, trovandoli sia nell’altrui stampa di partito (in particolare quella socialcomunista) che nella stampa di informazione, alla quale il quotidiano fiorentino, pubblicato tra il 1947 ed il 1966, guardò con grande attenzione, anche con un approccio di sfida.
L’esemplarità del quotidiano è del resto dimostrata dai recenti studi dedicatigli da Pier Luigi Ballini e Piero Meucci. L’interesse è stato favorito anche dall’emersione dei Diari di Ettore Bernabei, direttore del giornale dal 1951, al centro di due volumi, il primo di Meucci pubblicato nel 2021 e il secondo, edizione dei Diari stessi del periodo 1956-1960, curato da Gianni La Bella. Mazzei del resto si era già autorevolmente inserito nel cantiere di ricerca sul «Giornale del Mattino», partecipando al volume curato da Ballini e ad un secondo sul giornalismo italiano dal 1950 curato da Paola Carlucci e Eugenio Salvatore. In questo lavoro raggiunge un livello più avanzato di sintesi e amplia la prospettiva sulle strategie comunicative della DC, con un fitto dialogo tra documenti d’archivio e bibliografia meticolosamente fusi in cui risalta specialmente la corrispondenza inedita dall’archivio De Gasperi.
Il «Giornale del Mattino» era nato da «La Nazione del Popolo. Organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale», alla cui cessazione, il 3 luglio 1946, la testata passò alla DC, che il 5 febbraio 1947 la modificò in «Il Mattino dell’Italia centrale» (la testata definitiva fu assunta all’inizio del 1954). Alla direzione fu posto Cristano Ridomi, già inviato del «Corriere della Sera», che riposizionò il giornale «a mezza strada tra l’organo di partito e il giornale indipendente»: un «centauro», secondo la formula pensata da Guido Gonella per «Il Popolo». La traiettoria di questo «centauro» viene seguita nel suo oscillare dialettico con gli organi centrali del partito, soprattutto nel periodo 1951-1956 in cui Giorgio La Pira fu sindaco di quello che viene definito un vero e proprio «laboratorio politico nazionale».
Il pendolo della ricerca di Mazzei si sofferma dapprima su De Gasperi che, memore dei suoi trascorsi giornalistici, fu ben consapevole dell’importanza della stampa di partito e cercò di coordinarla per tenere insieme formazione politica e informazione, oculatezza finanziaria, distanza dai clientelismi locali, dall’estrema politicizzazione e dall’influsso correntizio, risposta alla sfida della stampa settimanale.
Il vaste programme di De Gasperi prese forma durante il suo settimo governo, nel luglio 1951, con la creazione del Sottosegretariato della Presidenza del Consiglio con delega per la Stampa e le Informazioni, affidato a Giorgio Tupini, già responsabile dell’Ufficio Studi Propaganda e Stampa (SPES); tornando poi alla segreteria nel settembre 1953 rilanciò lo sforzo centralizzatore fondando «La Discussione», settimanale controllato dalla Segreteria. Ma gli esiti non furono quelli attesi rispetto al consenso elettorale del partito e al florido andamento della stampa socialcomunista. La differenza con il successore Amintore Fanfani si apprezza soprattutto rispetto alla stampa indipendente: se De Gasperi gli riconosceva tacitamente il ruolo di argine anticomunista, l’atteggiamento «partitocentrico» di Amintore Fanfani puntò al consolidamento del partito più che a fiancheggiamenti esterni, anche se col medesimo obiettivo di controllo sulla costellazione dei 14 quotidiani controllati dal partito.
Quando il pendolo della ricerca si sposta verso i riflessi fiorentini del tentato percorso di razionalizzazione, emerge la figura del trentenne Ettore Bernabei, chiamato nel 1951 a sostituire Ridomi. Il nuovo direttore, oltre a dotare il giornale (che in fondo assorbiva 20 milioni sui 100 destinati dal partito alla stampa) di una propria tipografia, impresse una svolta creativa puntando alla «settimanalizzazione» con numerose fotografie. In questo modo cercò di stipulare con il lettore un contratto di responsabilità e prossimità, favorendo al tempo stesso spazi di autonomia e crescita professionale dei suoi giornalisti (come non ricordare Sergio Lepri?).
Nella sua intraprendenza Bernabei approfittò del ruolo più informativo che toccava alla stampa regionale del partito rispetto a «Il Popolo» e degli spazi che questo gli lasciava e riuscì a disfarsi del marchio di ufficialità traghettando il giornale, durante gli anni lapiriani, in una zona per la quale la definizione di giornale fiancheggiatore non appare sufficiente. Con questo termine ci sembra che l’autore intenda un giornale capace di veicolare con nettezza la linea del partito e, allo stesso tempo, di soddisfare i bisogni informativi del lettore democristiano senza costringerlo a ricorrere ad altre fonti informative. Questo spazio che si era conquistato Bernabei, in sintonia con Fanfani, lo difese invocando una «autosufficienza informativa», senza timori reverenziali verso i quotidiani come «La Nazione», al riparo della cui sbandierata indipendenza si annidavano gli interessi della compagine proprietarie, un refrain ricorrente nelle polemiche giornalistiche cittadine del periodo lapiriano. Quegli anni sono lo snodo centrale del libro che vi getta una luce rinnovata. La sua elezione fu quasi parallela alla nomina di Fanfani, anche lui dossettiano, a ministro dell’Agricoltura nel settimo governo De Gasperi. Anche La Pira creò uno spazio politico nuovo in nome del valore eterno dell’umanesimo cristiano intimamente connesso con Firenze, lontano da un anticomunismo monocorde e orientato a uno «Stato democratico in cui c’è posto per tutti». Intrecciando ricostruzioni esistenti e nuove fonti, Mazzei fa percepire i tratti anche populistici dell’azione del sindaco ma soprattutto la nota appassionata e sincera che i cittadini riconobbero, affidandogli il ruolo di legittimo interprete della fiorentinità.
Il ricordo a queste modalità prepolitiche della comunicazione ispirò talvolta qualche dubbio nel giornale, dissipato però in un caldo sostegno quando l’inflessione spirituale si coniugò con le notissime battaglie di La Pira contro la disoccupazione e per il diritto alla casa. L’accerchiamento critico dei giornali indipendenti contro La Pira fu rotto dal «Giornale del Mattino» mentre Fanfani assunse un profilo basso, temendo che le questioni fiorentine assumessero rilievo nazionale, come invece auspicato dal sindaco e dal giornale di Bernabei.
A fianco di La Pira il giornale assunse una fisionomia propria e la proiettò nella valutazione della politica nazionale. Per non dare l’impressione di calcare percorsi alternativi alla linea di partito occorreva pratica un equilibrio sottile: tenere viva in Fanfani l’eredità degasperiana ma appoggiare, appunto, la richiesta lapiriana di riforme che incidessero subito sulla vita dei lavoratori per sottrarli all’attrazione di un PCI tentato da azioni al limite della legalità. Di qui il consenso verso concetti come «democrazia rafforzata» e «autodifesa della democrazia», che guidarono la fase «neocentrista» del VII governo De Gasperi e portarono alla promulgazione della legge intitolata a Mario Scelba del 20 giugno 1952.
Altrettanto stretto il percorso rispetto alla relazione da intrattenere con i partiti minori della coalizione, sulla quale si reggeva il compromesso degasperiano. Anche per superare questo vincolo si fece strada la proposta di una nuova legge elettorale maggioritaria a cui la DC si avvicinò ricompattandosi al congresso di Roma del novembre 1952, dove prevalse la lista di De Gasperi che integrò Iniziativa Democratica.
Le vicende legate alla legge e alla mancata applicazione del premio di maggioranza, nonostante il buon risultato della DC, sono notissime. Meno noti alcuni elementi della crisi successiva e della breve vita del governo Pella, sullo sfondo dei tatticismi dei partiti minori deprecati da Bernabei, che ormai aveva aderito risolutamente alla promozione dell’interventismo statale contro l’«assenteismo liberista». In pratica si trattava già un giudizio sfavorevole alla formula di governo neocentrista, che stava salendo alla ribalta con il governo Scelba. Anche in questa fase il direttore cercò tuttavia sempre di equilibrare queste puntate in avanti non disertando mai i bastioni dell’anticomunismo.
All’investitura di Fanfani da parte di De Gasperi al Congresso di Napoli del giugno 1954 succedette la fase della valorizzazione dell’eredità dello statista. Bernabei, La Pira e la new entry del laboratorio fiorentino, Nicola Pistelli, fresco columnist del giornale, vi scorsero l’artefice di una libertà «cristianamente ispirata» declinata, per quanto riguardava il partito, nell’aspirazione all’autonomia, chiave della piattaforma dello stesso Pistelli, artefice del quindicinale «Politica», vicino al giornale contro la «destra economica» annidata nel governo Scelba. Il mosaico fiorentino trovò un correlativo strategico nell’elezione di Giovanni Gronchi alla Presidenza della Repubblica e più tardi nel governo di Antonio Segni, proveniente dalla fanfaniana Iniziativa Democratica. Gronchi e Fanfani misero nel mirino Scelba e il neocentrismo dal fiato corto, in favore di una «politica delle cose» da attuare uscendo dall’ombra del «protettorato laico» (così Gabriele De Rosa, transfuga dal PCI e nuovo editorialista del giornale). Bernabei vide allora delinearsi e promosse una «alleanza riformatrice», anche se dai contorni di coalizione indefiniti, orientata all’allargamento del perimetro di intervento dello Stato, soprattutto contro i partiti minori. La vittoria DC alle amministrative fiorentine del 1956 e la successiva caduta di La Pira nel 1957 a causa del PSDI, mandò per il momento in soffitta i cenni d’intesa verso il PSI che il giornale si era lasciato scappare e riportò il pendolo verso la linea nazionale di Fanfani. In breve la vicinanza dei due uomini fu sancita dalla chiamata di Bernabei a Roma, alla direzione de «Il Popolo», nel contesto dell’ennesimo tentativo di depotenziare le correnti ed arginare le perdite finanziarie dei giornali DC. Problemi finanziari che, dopo la caduta di Fanfani nel 1963 e l’ascesa della corrente dorotea, portarono il giornale sul viale del tramonto tra «l’incostanza imprenditoriale e il disinteresse culturale» del partito fino alla cessazione delle pubblicazioni, il 31 luglio 1966.
Una diagnosi a caldo sul fallimento venne da Pier Luigi Ballini che su «Politica» evocò l’incapacità del partito di creare una rete di giornali locali privi del marchio di «fiancheggiatori», vicini alle aspirazioni dei territori e capaci di autosostenersi, distanziandosi dagli «atroci bizantinismi» della politique politicienne.
Il tentativo del giornale di sottrarsi all’ipoteca del fiancheggiamento e di assumere una propria identità, meritava di essere approfondito con questo metodo che tiene abilmente sotto controllo il moto parallelo delle idee e della loro trasformazione in fatti, locali e nazionali.
(Pubblicato il 12 settembre 2024 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)