di Eugenio Di Rienzo
La Francia, come l’Italia, ha tardato a fare i conti con il suo passato prossimo. Solo recentemente quella nazione ha deciso di portare alla luce alcuni scheletri troppo a lungo celati nell’armadio della memoria. La “strana disfatta” delle sue armate, travolte in poche settimane dall’esercito nazista, e l’esistenza di un regime collaborazionista che, fino al termine del conflitto, si sarebbe affiancato in posizione di fedeltà gregaria al Reich hitleriano. Di questo periodo oscuro, si è fatto recentemente analista Henry Rousso nel volume La Francia di Vichy (Il Mulino, 2010, pp. 136 , € 11,50).
Nel giugno 1940, l’armistizio con le potenze dell’Asse trasformava radicalmente la carta geografica e politica francese. La Francia veniva divisa in tre aree distinte. Una «zona occupata», che comprendeva Parigi e si estendeva fino all’Atlantico, controllata dalla Germania, che aveva inoltre annesso l’Alsazia e la Lorena. Un largo comparto territoriale consegnato all’Italia, con Grenoble, Tolone e la Corsica. Al centro-sud, una «zona libera», amministrata dalle autorità francesi, che ospitava la propria capitale nella cittadina termale di Vichy. Del nuovo regime, che si definiva «Stato francese», a testimoniare la rottura con la Francia repubblicana, aveva assunto la leadership il Marescialo Pétain, un eroe della Grande Guerra, al quale l’Assemblea Nazionale aveva attribuito i pieni poteri.
Era una soluzione autoritaria, che gli invasori non avevano richiesto, e che impropriamente si potrebbe definire come fascista. Lo Stato di Vichy aveva radici autoctone: le grandi correnti del tradizionalismo francese, monarchiche, tradizionaliste, ultracattoliche, che si richiamavano ad una visione organica del potere, infranta dalla Rivoluzione francese, e che la sconfitta del 1940, da molti considerata come «un dono di Dio», aveva consentito di restaurare. La vera e propria componente fascista, rappresentata da alcuni movimenti attivi prima della guerra, costituiva soltanto un parte minoritaria del nuovo assetto politico che traeva le sue origini dal cuore antico della Francia.
E autoctono e di secolare memoria era anche l’antisemitismo di Vichy. Lo stesso che, tra fine dell’800 e metà del 900, aveva guadagnato nuovi proseliti, non solo tra la destra conservatrice dell’Action française, ma anche in alcune correnti socialiste e in larghi settori del mondo intellettuale. L’antisemitismo di Vichy era dunque una dottrina anti-giudaica compiutamente nazionale, come avrebbe dimostrato l’imperversare di una persecuzione organizzata ed eseguita in proprio dal governo di Pétain, al quale faceva riscontro l’indifferenza della maggioranza della popolazione e non di rado lo spontaneo aiuto che una parte di questa fornì al genocidio francese. Delazione e collaborazione per lo sterminio, di cui non si macchiarono soltanto le forze della reazione, ma anche membri del Partito comunista che, fino al 1941, si era distinto per un atteggiamento di cordiale intesa con l’invasore, in omaggio al patto di alleanza che univa il totalitarismo sovietico a quello nazista.
All’Olocausto dei 77.000 ebrei di Vichy si sarebbe aggiunto, dopo la fine del conflitto, quello della memoria. La Francia liberata intendeva dimenticare quella pagina nerissima della sua storia, tessendo la leggenda di un paese che, nella sua totalità, aveva rifiutato il gioco nazista e che si era sottratto alla tirannia dello straniero con le sue sole forze. Leggenda di comodo, che contrastava con il calcolo delle forze messe in campo: il pugnace ma non numeroso esercito gollista, le sparute formazioni partigiane, che non sarebbero mai arrivate a contare su più di 20.000 combattenti effettivi. Al mito della resistenza di massa si aggiungeva una ben articolata «operazione oblio», che iniziava già con la resa dei conti dell’immediato dopoguerra. Sugli uomini di Vichy avrebbe infuriato il rigore di un’ epurazione di stampo giacobino. A molti di essi sarebbe toccata la pena capitale, per imputazioni che riguardavano, tuttavia, la cooperazione fornita al regime hitleriano e solo molto sporadicamente il crimine di antisemitismo.
Molti, troppi sarebbero stati i prosciolti dalle accuse concernenti quel delitto contro l’umanità, in virtù della colpevole clemenza di tribunali, sui cui portali si sarebbe dovuto scrivere: «L’antisemitismo non è reato». Vergogna francese, che non deve far dimenticare quella italiana. Se, in tutti i territori occupati, i nostri comandi militari si opposero sistematicamente alla deportazione della popolazione ebraica, sul suolo italiano, dopo il settembre del 1943, non mancarono volonterosi delatori di Hitler. Italiani che, dopo aver contribuito alla cattura di concittadini ebrei, rimasero impuniti, nonostante la denuncia inoltrata alla magistratura dai parenti degli scomparsi. Per parte mia, posso aggiungere che tra i molti fascicoli, relativi all’epurazione del personale universitario, iniziata nel 1944, mai compare l’accusa di antisemitismo, in relazione ad intellettuali la cui attività a sostegno della politica della razza era pure tristemente nota. L’accusa di antifascismo schiacciava quella di antisemitismo fino a farla scomparire. Era questo il frutto non di una deliberata ostilità contro i figli di Israele, ma probabilmente solo di un’antica indifferenza nei loro confronti.
Nel 1961, Renzo De Felice, allora occupato nella redazione del volume sugli ebrei italiani durante il fascismo, chiedeva a Franco Venturi, un intellettuale impegnato, a partire dagli anni ’30, nella lotta contro il regime di Mussolini, notizie dell’azione di contrasto svolta dall’antifascismo italiano, esule a Parigi, contro i decreti della razza del 1938. Alla domanda seguiva una deludente risposta, nella quale Venturi confessava di poter dire «ben poco, personalmente» sulla «propaganda degli emigrati contro le leggi razziste».