di Eugenio Di Rienzo
La recente traduzione delle Memorie di un garibaldino russo di Lev Illič Mečnikov ci offre una testimonianza meno oleografica e certo più autentica sull’impresa dei Mille. L’ucraino Mečnikov (destinato a divenire il padre fondatore della moderna Geopolitica), che si aggregò all’esercito garibaldino nell’agosto del 1860, dopo aver raggiunto la Sicilia a bordo di un vascello scortato da una fregata inglese, scoprì rapidamente che la marcia dell’avventuriero nizzardo lungo la Penisola non equivaleva a una guerra di liberazione del Mezzogiorno. Sebbene, Mečnikov insista molto sull’appoggio delle campagne per la riuscita della marcia trionfale di Garibaldi, dovuta principalmente all’appoggio del basso clero, soprattutto siciliano, che sobillò i fedeli, contadini e popolani, contro le truppe lealiste, troppe e troppo grandi erano le differenze culturali che dividevano i «liberatori» dai «liberati».
Differenze che provocarono sporadici ma cruenti fenomeni di resistenza contro i volontari in camicia rossa e che fecero temere che l’ingresso di Garibaldi a Napoli sarebbe potuto essere ostacolato da una sollevazione della popolazione ancora fedele ai Borboni. Soltanto l’intervento della Camorra (guidata dalla «sanguinaria», Marianna De Crescenzio, detta la Sangiovannara) riuscì a evitare questo pericolo con atti d’intimidazione violenta contro i sostenitori dell’antica casa regnate napoletana e grazie a un controllo capillare delle zone strategiche della città. La terribile capoclan, «dotata dello stesso potere assoluto di un pascià turco», che Mečnikov descrive come «un leone o una tigre stretti in gabbia, dagli occhi che brillavano rabbiosamente», fece proprio il motto «Libertà-patria-democrazia» e convinse il sottoproletariato napoletano ad astenersi da ogni atto ostile contro l’avventuriero di Nizza con minacce e largizioni di denaro.
Notizie ancora più dettagliate della conversione patriottica della potente società segreta erano contenute nel volume del poligrafo di origine francese, Marc Monnier (La camorra. Notizie storiche documentate, pubblicato a Firenze nel 1862). Secondo Monnier, fino alla metà del XIX secolo, l’organizzazione malavitosa, ramificatasi nell’amministrazione, nella giustizia, nell’esercito, nella massoneria, aveva sottoscritto un pactum sceleris con la gendarmeria borbonica, collaborando con essa nella repressione dei piccoli reati, in cambio di una larga tolleranza nei suoi confronti. La Camorra, infatti, formava una specie di «polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che si occupava solo dei delitti politici». Se un furto veniva commesso nell’abitazione di un notabile, sosteneva Monnier, «il commissario convocava il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro che era sempre rapidamente catturato». Inoltre, la camorra era utilizzata nella «sorveglianza delle prigioni, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati della città». «Assassinava per proprio conto» ma interveniva per sedare le risse ed evitare regolamenti di conti, con la sua giustizia privata, garantendo la sicurezza dei quartieri popolari.
L’intesa cordiale tra quella che amava definirsi la «Bella Società Riformata» e il sovrano delle Due Sicilie s’interruppe però dopo il 1849, quando Ferdinando II, dopo aver debellato i moti rivoluzionari insorti in Sicilia e nella capitale decise di avviare una sistematica opera di repressione contro i camorristi. Da quel momento, la Camorra si trasformò in «Camorra politica» che si pose al servizio del movimento liberale, proteggendone le riunioni clandestine, assicurando l’assistenza ai detenuti politici e facilitando la loro fuga dalle prigioni. Il 2 novembre 1859, il nuovo re delle Due Sicilie, Francesco II, era a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire all’ambasciatore austriaco che tutti gli sforzi del suo governo erano concentrati a impedire che i suoi capi organizzassero una massa di manovra per attuare un’insurrezione.
Non si trattava di timori infondati. Nel giugno del 1860, il plenipotenziario inglese a Napoli, Henry George Elliot, informava il Foreign Office che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani restati fedeli alla dinastia borbonica e per presidiare il porto in modo da facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi. Proprio questo accadde, nel luglio del 1860, quando i membri dell’onorata società inquadrati in una sorta di guardia nazionale dal ministro di Polizia Liborio Romano (ormai convertitosi alla causa dei Savoia), divennero i veri padroni della città in attesa dell’arrivo di Garibaldi. «Dopo aver reso questi servigi», scrisse Elliot nelle sue memorie, i camorristi acquistarono «una potenza e un’autorità spaventevole», che ancora a oggi, a centocinquanta anni dall’unità d’Italia, non sono state ancora distrutte.
(Pubblicato il 16 luglio 2011 – © «il Giornale»)