di Eugenio Di Rienzo
È toccato a Giuseppe Bedeschi di assumere lo scomodo ruolo di «guardiano del liberalismo» in un’epoca in cui tutti ormai, orfani di Mussolini e di Togliatti compresi, si dichiarano eredi di questo principio politico senza averne nessun titolo. A questa mission Bedeschi si è dedicato con ostinata tenacia nel suo volume del 2007 (Liberalismo vero e falso, Le Lettere), lo sta facendo nella composizione della voce «Liberalismo» del Dizionario dei liberali Italiani, di prossima pubblicazione presso Rubbettino, e lo fa ancora nel recentissimo, Il rifiuto della modernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau (Le Lettere, pp. 204, € 18,50), dedicato ad uno dei principali nemici della «società aperta» liberale.
Bedeschi non ama il filosofo ginevrino della metà del Settecento, che contende a Hobbes e a Locke il titolo di principale pensatore politico dell’età moderna, e di questa avversione ci da conto con lucidità estrema, analizzandone l’intera produzione: dal primo e secondo Discorso sull’ineguaglianza tra gli uomini, al Contratto sociale, al Progetto di costituzione per la Corsica. Questi scritti, spesso esaminati separatamente o addirittura contrapposti tra loro, vengono considerati da Bedeschi nella loro sistematicità fino a comporre una vera e propria summa, nella quale anche il pubblico dei non addetti ai lavori può facilmente riconoscere il rapporto critico e negativo che Rousseau ebbe con la modernità e cioè col sorgere e l’affermarsi dello spirito borghese.
Dopo la «gloriosa rivoluzione inglese» del 1688, Locke aveva visto nella proprietà della persona, dei beni e dei frutti del lavoro individuale il principio costitutivo delle libertà politiche e civili. Nel 1776, Adam Smith individuava nel modo di produzione capitalistico l’avvento di un’era che avrebbe posto fine all’individualismo possessivo di pochi privilegiati assicurando una generale prosperità. Al contrario, appena un ventennio prima, Rousseau scorgeva nel progresso tecnologico, applicato non solo alle manifatture ma anche all’agricoltura, la causa di una più forte forma di oppressione destinata a trasformare l’«ineguaglianza naturale» in «ineguaglianza sociale».
Ma dicono veramente qualcosa di molto diverso dal profeta di Ginevra, gli odierni organizzatori delle manifestazioni no-Tav, gli eco-terroristi di varia foggia e colore, i nostalgici dell’austerity dei primi anni Settanta, le Cassandre della prossima ventura catastrofe ambientale che basano le loro previsioni sui dati climatici ampiamente manipolati dai «padroni del vapore» dell’industria verde? Anche essi, come il loro illustre predecessore del XVIII secolo, guardano con struggente rimpianto alle «società chiuse» dell’antichità e del quarto mondo, dove il sottosviluppo e una misera economia di sussistenza costituirono un tempo e costituiscono ora il modo migliore per farne restare i componenti nella condizione di sudditi privi dei privilegi e delle garanzie della cittadinanza politica.
Con una differenza però. Se Rousseau rimpiangeva il nauseante e poco nutriente «brodetto nero» ingurgitato dai poveri (ma per questo virtuosi) abitanti di Sparta, i suoi odierni seguaci si cibano soltanto di prodotti rigorosamente biologici, acquistati a caro prezzo nelle boutiques di nicchia di New York, Londra, Parigi, Milano. Alla faccia naturalmente dei milioni e milioni di abitanti del globo, ai quali, in mancanza di un’agricoltura, di una zootecnia, di un’industria alimentare di massa, non viene assicurato il più elementare di tutti i di diritti: quello di non morire di fame.
(Pubblicato il 30 marzo 2010 – © «il Giornale»)