di Eugenio Di Rienzo
Non un instant book, schiacciato sulla cronaca, ma un saggio di “storia presente”, che offre la possibilità di ricostruire, senza disdegnare le vicende quotidiane, ma inquadrandole in un contesto più ampio e ragionato, la vita politica italiana degli ultimi trent’anni. È questo, in sostanza, il breve ma denso libro di Aurelio Musi: “La grande illusione. Trent’anni dopo Tangentopoli”, pubblicato da Biblion Edizioni. Un saggio, “adatto al tempo e all’ora”, per dirla con Thomas Mann, che appare nel momento in cui la crisi sistemica del nostro Paese si appalesa con abbacinante chiarezza, e che è anche il frutto del dialogo incessante fra l’autore e il suo maestro, Giuseppe Galasso, e della lunga attività svolta da Musi come editorialista politico delle pagine napoletane del quotidiano “La Repubblica”.
Il senso del titolo è messo in chiaro da Musi, quando scrive nell’introduzione che “storicizzare il presente” (o la memoria di eventi ancora palpitanti nella memoria collettiva), significa collocarli “in un sistema di connessioni capace di spiegarli”. Significa cioè scire per causas e quindi leggerli nella logica dell’operazione storica, composta di tre passaggi: la collazione delle fonti, criticamente vagliate; la ricostruzione degli eventi e dei processi; la loro interpretazione. Ultimo passaggio che può avvenire solo dopo aver compiuto i precedenti e offerto al pubblico la possibilità di conoscere le basi materiali, le fonti di riferimento dell’analisi.
L’idea di base del libro è la “contemporaneità della storia” messa in campo da Benedetto Croce (ma anche da Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe). E cioè l’attualità di tutte le storie del passato remoto, prossimo, vicinissimo perché tutte le storie (dalla costruzione della piramide di Cheope all’attuale conflitto russo-ucraino) si presentano “presenti” allo storico quando lo spingono a riflettere sugli eventi della sua epoca e poi a narrarli e a intrepretarli. Al tempo stesso, tuttavia, Musi rivendica l’esigenza di un aggiornamento di quell’idea attraverso una rivalutazione della cronaca: non considerata, come ritenne Croce, “storia morta”, ma rivitalizzata, per così dire, nel laboratorio di un’accurata storicizzazione. Solo così, sostiene Musi, “riusciamo a mettere insieme i pezzi della cronaca quotidiana e preservarli nella memoria senza disperderli nella loro frammentazione e dotandoli di senso”. E trasformarli in documenta, quindi.
Vista trent’anni dopo, la storia politica italiana si presenta, in questo libro, come una sequenza di illusioni, di speranze, di Great Expectations, indirizzate verso il rinnovamento del sistema politico e della classe dirigente, accumulatesi nel corso del tempo. Dall’illusione, alla delusione, al disincanto il passaggio è stato poi molto rapido e bruciante: e il pregio del libro è anche la capacità di fondere razionalità e passione nella ricostruzione storica. Il punto di partenza dell’analisi è la crisi dell’assetto della politica del nostro Paese nel triennio 1992-1994. Per l’autore, l’operazione “Mani pulite” non fu né un Colpo di Stato ad opera della magistratura (una “rivoluzione giudiziaria”), ma neppure un evento benefico e salvifico in grado di recidere l’intreccio adulterino fra affari e politica (vecchio male italiano dall’età giolittiana alla stagione fascista), e di por fine alla corruzione dilagante. Fu piuttosto l’esito inevitabile di una storia di più lunga durata: il processo di trasformazione progressiva della funzione dei partiti da organismi di integrazione di massa a “partiti pigliatutto”, secondo la felice formula proposta da Otto Kirchheimer, ridotti negli anni Ottanta a involucri vuoti senza anima, e il venir meno degli orientamenti ideali, socialista, comunista, cattolico, liberaldemocratico, su cui si erano andate costruendosi le basi della Repubblica.
Il protagonismo della magistratura ha così riempito il vuoto della politica, distorcendo il principio e la pratica della divisione e dell’equilibrio dei poteri e, attraverso processi spesso sommari e vagamente indiziari, per usare un eufemismo, ha decapitato un’intera classe dirigente, in parte corrotta, ma in larga parte ancora capace di leadership soprattutto sul palcoscenico internazionale. La seconda tappa della “grande illusione” è stata la “stagione dei sindaci”. La speranza di un rinnovamento della classe dirigente a partire dal governo delle città è andata totalmente delusa. L’elezione diretta e il potere grande, se non addirittura smisurato, dei Primi cittadini, previsti dalla legge 81/93, hanno contribuito, infatti, al processo di personalizzazione della politica e allo squilibrio di poteri in periferia.
Lucida è l’analisi compiuta dall’autore sulla formazione e lo sviluppo dei partiti personali. Il ragionamento parte da una critica serrata ai numerosi saggi dedicati al tema dal suo maggiore studioso, Mauro Calise. Musi demolisce poi un altro mito: quello della capacità dello Stato di combattere l’Antistato, criminalità organizzata e poteri illegali. È la dicotomia Stato-Antistato ad essere contestata dall’autore attraverso l’identificazione di nessi e intrecci fra i due profili che configurano la coesistenza di collisione e collusione fra i due poteri. Anche la fiducia nell’avvento del federalismo, che si è surrettiziamente cercato di attuare attraverso la riforma del Titolo quinto della Costituzione, in virtù delle “magnifiche sorti e progressive” del decentramento è stata profondamente scossa sia dal potere abnorme assunto dai Presidenti di regione, sia, da ultimo, dalla disastrosa gestione del rapporto centro-periferia prima e dopo la catastrofe della pandemia,
E oggi? Torniamo al nastro di partenza. Come in un “perpetuum mobile” il sistema politico italiano sembra in preda a veloci trasformazioni, rappresentato, come è, dalla moltiplicazione delle Repubbliche (prima, seconda, terza, ecc.), abitualmente utilizzata come slogan di largo consumo dai media, ma anche da qualche politologo. A dispetto di questa presunta spinta al cambiamento, c’è, tuttavia, la persistenza di desolanti dati di fondo: dalle carenze intellettuali e politiche della classe dirigente alla inadeguatezza delle strutture istituzionali e burocratiche che quella classe avrebbe dovuto guidare e modernizzare, all’assenza, last but not least, di un serio partito conservatore di destra e di una forza liberaldemocratica di sinistra, capaci di creare un vero bipolarismo. E da qui deriva, conclude Musi, la frammentazione del “sistema Italia”, sempre più gravemente segnato dall’assenza di un efficace coordinamento tra centro e periferia, tra governo nazionale e governi locali del Paese.
(Pubblicato il 1° agosto 2022 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)