Stefano Folli
Intorno al 25 aprile, come ogni anno, si sono accese le passioni. Torna l’eterna accusa di filo-fascismo ovvero a-fascismo per condannare chi è apparso debole o reticente nel proclamarsi anti-fascista. Tutto questo fa parte del dibattito politico, molto aspro perché ci avviciniamo alle elezioni e la destra di Fratelli d’Italia sembra prossima a confermarsi partito di maggioranza relativa. Ma c’è dell’altro, qualcosa che rende lo scontro politico del tutto funzionale alla retorica di chi, anno dopo anno, ripropone il sempre uguale. Una contestazione cristallizzata nel tempo e ormai fuori dalla storia e dalle sue evoluzioni. A meno di non voler concludere che in Italia siamo prossimi all’avvento di un nuovo regime fascista, ha poco senso infierire su coloro le cui radici lontane affondano in uno scenario storico che l’Italia repubblicana ha ripudiato. E lo ha fatto a cominciare dalla cornice in cui è stata scritta e collocata la Costituzione, figlia dell’incontro – peraltro non privo di forti contrasti – tra i partiti antifascisti.
Il fascismo è stato rinnegato dalla storia e quindi l’antifascismo è ormai consolidato come la base naturale delle istituzioni e dello stesso confronto destra-sinistra. Negarlo significa delegittimare il governo, l’attuale maggioranza (pur ricca di ambiguità), la cultura politica come si è modellata nel corso dei decenni repubblicani. Eppure ogni 25 aprile le lacerazioni si ripresentano. Da un paio d’anni accentuate dal giudizio sui fatti d’attualità: prima l’invasione russa dell’Ucraina, che trovò parecchi esponenti dell’Anpi, l’associazione che rappresenta in modo ideale i partigiani del 1943-‘45, schierarsi dalla parte di Putin; e quest’anno la guerra in Medio Oriente, in particolare a Gaza. L’appoggio ai palestinesi di numerosi gruppi di estremisti si è risolto in un’assoluzione implicita di Hamas, l’organizzatrice del 7 ottobre ‘23. Chi si è opposto a questa curvatura che nulla c’entra con il nostro 25 aprile, passa per un mezzo fascista: persino la Brigata ebraica, bersaglio di insulti pesanti e di tentativi di aggressione, non si è sottratta alle accuse. Il passato si mescola con il presente e lo deforma a uso di minoranze intolleranti.
Non è una novità. Al fondo sembra esserci una profonda mancanza di cultura in cui si coglie una responsabilità non piccola della scuola e dell’università. Allo studio degli eventi culminati nel 25 aprile ‘45 si dedicano poche e svogliate ore di lezioni. Oppure si offre una lettura politica con una chiave interpretativa scontata fin dall’inizio. Singolare il destino del maggior storico del fascismo e biografo di Mussolini: Renzo De Felice. In vita contrastato e contestato, poi riconosciuto per il valore della sua opera. Ma in seguito, dopo la sua morte, di nuovo espulso idealmente da un certo “establishment” culturale e accademico. Il 25 aprile che celebriamo ogni anno sembra essere la negazione della lezione defeliciana. Eppure lo storico fu un sicuro antifascista, pur rifiutandosi di aderire alla “vulgata” (così la chiamava), cioè a una banalizzazione che serviva alla politica, anzi a una certa politica, e non alla storia. Lo apostrofarono in maniera sprezzante quale “revisionista”, quando era chiaro che ogni storico è tale se continua nel lavoro di ricerca e non si ferma a ciò che è già stato codificato. In quel caso è solo un propagandista di tesi ufficiali.
La vicenda personale di De Felice conobbe un punto di svolta quando a difenderlo scese in campo, con tutta la sua autorità anche intellettuale, il comunista Giorgio Amendola. Egli non condivideva tutti i risultati del lavoro dello storico. Ma faceva proprio il punto fondamentale: la necessità di collocare il fascismo nella storia d’Italia, studiandone la genesi, gli sviluppi, il catastrofico finale. Al di fuori di ogni moralismo e anche, per quanto possibile, delle passioni di parte. Scriveva Amendola sull’Unità, organo del Pci: “Non si possono cancellare venti anni della storia d’Italia. Non fare la storia del fascismo significa condannarsi a non comprendere le ragioni dell’avvento e della durata del fascismo e la natura della pesante eredità che esso ha lasciato”. Prima di De Felice e di Amendola, lo studio del fascismo si riassumeva nell’esecrazione (legittima, sia ben chiaro). Ma ora si apriva la strada alla ricostruzione storica. Che voleva dire, in un certo senso, consegnare il fascismo al passato dopo averlo, appunto, storicizzato. E infatti la tesi defeliciana era che con Mussolini, nell’aprile ‘45, era morta anche la sua creatura.
Come ha ricordato Dino Cofrancesco in un suo scritto di qualche anno fa, nel luglio ‘75 Luigi Firpo, uno dei massimi collaboratori della “Stampa” di quel periodo, citava una frase di De Felice per condividerla in pieno. “Il fascismo ha fatto infiniti danni ma uno dei più grossi è stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista ai non fascisti, agli antifascisti, alle generazioni successive… una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazione dell’avversario per distruggerlo”. È doloroso ammetterlo, quasi cinquant’anni dopo, ma c’è molto di vero, dal punto di vista liberale, in quell’affermazione.
(Pubblicato il 29 aprile 2024 © «Huffington Post»)