di Tommaso Nencioni
“Carissimo Antonio, iersera guardando il cielo in una passeggiata dopo cena, ebbi un richiamo proustiano. Il ricordo di un cielo simile (una mezza luna in un pezzo sereno con varie nuvole più spesse che la raggiungevano e la lasciavano) mi riportò a una sera della primavera del 1943, quando tu ed Elena veniste a passare un giorno o due a Castiglioncello, dove noi eravamo sfollati. […]. Ancora oggi, quando ci ripenso, quegli anni mi sembrano tanti e lunghi; e in paragone pochi, brevi, rapidissimi quelli, numericamente certo di più, che ci dividono dal 1943! È una impressione psicologica, estremamente soggettiva. Ma non infondata e anomala. Anzi se interpretata può rientrare fra gli elementi che spiegano certo scarto di situazioni storiche, generali e individuali, e tanti motivi delle nostre delusioni presenti. La tensione spirituale nella condanna e nella lotta ai più vari livelli, la contrapposizione netta e senza compromessi di grossi blocchi ideologici, il senso di combattere senza ombra di dubbio o di tattiche dalla parte del giusto e del buono accompagnavano gli anni della nostra giovinezza […]. Poi la soluzione, per cui e nella quale ci adoperavamo, ma magari, io almeno, non quanto e come avremmo voluto, fu rapida e travolgente, quasi nelle forme di un escatologico avvento. E aperse la via a un lavoro incalzante e turbinoso, pieno almeno agl’inizi di fervori e di slanci, ma sempre più condizionato nel grande alveo di forze cristallizzate, di una situazione in cui alla lotta senza riguardi e senza esitazioni della rivolta morale e ideale erano successi gli accorgimenti del possibile”.
Se si volesse individuare una chiave di volta nel carteggio tra Furio Diaz e Antonio Giolitti da poco pubblicato (Figli di un “secolo tormentato”. Il carteggio tra Furio Diaz e Antonio Giolitti 1945-1998, a cura di G. Scirocco e G. Talini, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 2023, 359 pp.), essa risiede probabilmente in questo lungo passo di una lettera del primo al secondo, risalente all’estate del 1966, che non a caso si colloca grosso modo a metà della vicenda epistolare tra i due storici esponenti del movimento operaio italiano. La guerre est finie, riprendendo il titolo del film di Resnais del ’66, sceneggiato da quel Jorge Semprun dalla biografia politico-intellettuale non dissimile dai due protagonisti del carteggio, avrebbe potuto essere un titolo alternativo per questa importante pubblicazione. D’altro canto, il ricordo della guerra di Spagna costituisce un momento unificante in tutto l’arco del carteggio. Nei pareri politici espressi per l’intera durata dell’epistolario, infatti, il punto di partenza dell’Italia nuova, sognata durante la Resistenza, torna spesso come prisma attraverso il quale giudicare l’intera esperienza repubblicana. Questo è vero soprattutto in riferimento alle lettere di Diaz a Giolitti, che rappresentano del resto la stragrande maggioranza dei documenti rinvenuti e pubblicati dai curatori (Diaz qua e là si lamenterà della non sempre alacre disponibilità di Giolitti a mantenere vivo il carteggio).
I temi portanti del sodalizio intellettuale tra il sindaco della ricostruzione di Livorno, poi studioso tra i più importanti dell’illuminismo in Italia, ed il dirigente politico piemontese, a lungo parlamentare e ministro, oltre che una delle anime della casa editrice Einaudi, sono puntualmente ricostruiti, dal punto di vista storiografico ed etico-politico, nella solida introduzione dei curatori, nella presentazione di Valdo Spini, nella prefazione di Marcello Verga e nella postfazione di David Bidussa.
I protagonisti emergono dal carteggio come due tipici intellettuali organici al partito-nuovo togliattiano del secondo dopoguerra, la cui sintonia si stabilisce in anni tormentati per poi restare un filo rosso lungo l’intero arco delle loro vite. Se assiduo è il riconoscimento, da parte di Diaz, della giustezza delle intuizioni e delle strategia politiche giolittiane, in parallelo lo statista piemontese mostra più volte all’amico e compagno il desiderio di un suo maggiore coinvolgimento nella battaglia politica diretta: un coinvolgimento che con la fine dell’esperienza di sindaco e poi con l’abbandono del PCI nel ’56, in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, viene affievolendosi.
Ma è forse con la scelta fatta a partire dalle vicende ungheresi (e moscovite) del ’56 che il legame tra i due si rafforza in maniera inscindibile. Con un paradosso che salta agli occhi: se indubbiamente la figura più immediatamente politica del binomio è quella di Giolitti, è Diaz a trarre dalla tragedia ungherese le conclusioni partitiche più concrete, e richiedere praticamente in medias res l’iscrizione al PSI (più tortuoso, come noto, il percorso che porterà Giolitti all’approdo socialista).
Da quel momento in poi. pur nella diversità di accenti e nella differente intensità dell’impegno politico, la concordia di fondo tra Diaz e Giolitti risulta non scalfita, al di là di considerazioni di natura tattica – ci si riferisce soprattutto alla critica di Diaz dell’adesione giolittiana al progetto della Sinistra Indipendente nella seconda metà degli anni Ottanta. Ma appunto identiche nella forma, ancorché modulate diversamente nel tempo, le ragioni che portano all’abbandono del PCI: le ragioni della costruzione della società socialista e della lotta al capitalismo sono mantenute valide, ma con alla base la premessa del socialismo come massimo sviluppo delle libertà umane.
Una volta approdati i due al Partito socialista – un approdo scomodo per Diaz, che si trova ad agire politicamente in una federazione egemonizzata dalla sinistra filocomunista – simili a entrambi si rivelano le speranze e si concretizzano le delusioni. Il rinnovamento della cultura politica del Partito a fine anni Cinquanta è portato avanti pervicacemente da Giolitti e appoggiato, a distanza, da Diaz. Ma subito, da parte di entrambi, si manifesta la critica alla ricaduta concreta di quella stagione di elaborazione teorica, ossia il centro-sinistra nella sua versione nenniana e dorotea. Ma lo scetticismo per come l’operazione del centro-sinistra viene realizzata non porta mai ad una sconfessione del progetto, l’opposizione nei confronti del quale, da parte comunista e sindacale, non è da Diaz e Giolitti considerata produttiva. Così come non ben afferrati sono i termini dell’opposizione interna all’ex area autonomista, guidata da Riccardo Lombardi, accusato da Diaz di eccesso di economicismo. Così quando Giolitti si pone finalmente a capo di una propria corrente interna al socialismo italiano, anche a causa del “pasticcio dell’unificazione” – come Diaz bolla l’effimera vicenda del PSU sul finire dei Sessanta – l’evento è salutato con soddisfazione dal sodale livornese. Se, infine, con distacco era stata vissuta la gestione nenniana del partito, con maggiore e più evidente distacco, e fastidio, è vissuta la stagione craxiana da parte di quelli che oramai sono due veterani, e che col Partito rompono radicalmente.
Dal carteggio emerge finalmente come la sintonia tra Diaz e Giolitti rimane intatta, per così dire, anche post res perditas, quando cioè i due protagonisti si trovano a riflettere, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, sui mutamenti radicali cui stavano andando incontro gli schemi politico-culturali del Novecento.
Netta è in questo senso, da parte di Diaz, la condanna del paradigma revisionista che stava prendendo campo in Germania e in Italia. Lo storico livornese coglie sia la faciloneria che caratterizza il revisionismo sul piano storiografico, sia soprattutto i suoi cascami politici: non solo quelli più immediati – la polemica contro la rivoluzione francese e la rivoluzione russa finalizzata a ristabilire gerarchie che la contemporaneità aveva tentato incessantemente di mettere radicalmente in discussione – che spalancano le porte all’egemonia culturale della destra (ravvisato come particolarmente minaccioso è l’avvento dell’era tatcheriana); ma anche quelli più di sistema, che pongono le basi per nuovi sistemi politici caratterizzati dal mantra della “stabilità”, una stabilità “litigiosa solo su problemi di potere e di clientele” (Diaz a Giolitti, 25 gennaio 1987).
La risposta di Giolitti, una delle poche conservate, si inserisce a pieno nel solco tracciato dall’amico, andando ancor più in profondità al cuore della questione. “D’altra parte – argomenta Giolitti –, che dirti sui temi che tu sollevi, che non ci siamo già detto? Non ho conoscenza diretta dei prodotti storiografici ai quali ti riferisci; ma mi rendo ben conto che essi rappresentano, in sede storiografica, una dilagante tendenza culturale che in nome della «modernità» e della «modernizzazione» conduce, più o meno consapevolmente, verso una riduzione della politica a tecnica per realizzare una coesistenza pacifica tra bisogni, meriti, interessi diversi a livello di società e in campo internazionale. O forse questa che ho appena enunciato è una versione ottimistica di quella tendenza? Forse il rischio che corriamo è quello non dello stravolgimento dei valori in senso nietzschiano ma del loro totale appiattimento e dissolvimento. Allora, per chi pensa, come io continuo a pensare, che «il destino è la politica», che le società umane si governano e possibilmente si autogovernano sulla base di scelte politiche ancorate a valori etici, tra questi gli «immortali princìpi» hanno rappresentato e a mio avviso ancora rappresentano una conquista di civiltà e un argine contro i rischi sempre presenti d’imbarbarimento”.
È qui ravvisato il nocciolo duro della crisi della democrazia liberale sul quale rifletteranno, a distanza di qualche decennio, un Wolfgang Streeck o un Colin Crouch, ad essere colto al principio del suo svolgimento. Quando ancora non era troppo tardi. Da questo punto di vista, la lettura e lo studio di questo prezioso carteggio non permette solo di riflettere sulla storia del movimento operaio italiano e internazionale, ma anche sulla storia nostra di oggi e sul futuro delle nostre democrazie.
(Pubblicato in © «Mondoperaio» – num. 4, aprile 2024)