di Aurelio Musi
È giusto applicare al passato i valori del presente? È questa la domanda che costituisce il tema conduttore del libro di Dino Messina, La storia cancellata degli italiani, Solferino editore. L’autore si muove con stile agile in un’inchiesta storica che unisce sapientemente la cronaca più recente degli episodi di “cultura della cancellazione”, noti a livello internazionale come “cancel culture”, con la riflessione approfondita dei problemi relativi ad una corretta metodologia storica.
La risposta alla domanda è apparentemente semplice, richiamando il buon senso. Ovviamente è negativa, perché, come scrive Messina, “anche i figli più nobili sono figli del loro tempo”: anche Washingtron e Jefferson, i fondatori della democrazia americana, tanto odiati dalla “cancel culture” perché accusati di essere imperdonabili schiavisti.
Gli incubi dell’eterno presente accecano e impediscono di guardare al contesto storico, allo spazio e al tempo in cui operarono personaggi che sono stati fatti oggetto della “cultura della cancellazione”.
La furia iconoclasta abbatte statue di Colombo, sterminatore di indigeni, e di altri presunti colpevoli di razzismo. Giù le statue? No, meglio spiegarle, “perché il passato non va demolito ma coltivato”, come scrive Dacia Maraini. Per capire una città come Roma, profondamente trasformata dal Fascismo, basterebbe, secondo Messina, “un po’ di pedagogia civica” per spiegare ai più giovani che cosa del ventennio sia stato rappresentato nei segni architettonici della capitale, l’eredità del “Fascismo di pietra”. E attraverso obelischi, mausolei si possono ripercorrere i segni dimenticati del colonialismo italiano.
Un lungo capitolo è dedicato al caso Montanelli. Il giornalista è diventato bersaglio ideale dei movimenti Me-Too, della “cancel culture”, non soltanto per aver partecipato da volontario alla guerra in Africa orientale nel 1935-36, ma per aver confessato di aver avuto in quell’occasione una sposa bambina, Destà di quattordici anni. Il caso è trattato con notevole equilibrio, ancor più lodevole per il fatto che l’autore considera Montanelli un suo grande e indiscusso maestro. Pertanto la critica al Montanelli fascista è svolta senza mezzi termini, l’errore nel concepire quello italiano “un colonialismo umano senza uso di gas”, sottolineato con forza. Ma con altrettanta decisione Messina elogia la capacità di Montanelli di riconoscere le ragioni dell’avversario e di fare marcia indietro di fronte alle prove storiche inoppugnabili dell’uso di armi chimiche nella campagna italiana in Etiopia.
(Pubblicato il 2 gennaio 2023 © «la Repubblica»)