di Mario Bernardi Guardi
Mentre a Sanremo Roberto Benigni, insieme a Gianni Morandi, ci ha regalato emozioni tricolori, celebrando l’Unità d’Italia e l’Inno di Mameli; mentre la Lega si tira polemicamente fuori dalla ricorrenza “nazionale” dei 150 anni, da una parte facendo i conti delle spese, dall’altra “facendo le bucce” al Risorgimento; mentre, come peraltro accade da decenni, la destra si divide tra i liberal-nazionali affascinati dal “tessitore” Cavour, i nazional-popolari attratti dal “socialista nazionale” Pisacane, i catto-destrorsi suddivisi a loro volta in asburgici, papalini, borbonici, leopoldini: c’è chi, pur scegliendosi gli antenati che più gli aggradano, si sforza di ragionare sull’argomento. Ovviamente complesso, dal momento che ci sono da raccontare fatti, uomini e idee, compulsando documenti e testimonianze, senza aver timore che abbiano a confliggere con la nostra verità. È il caso di Sergio Romano, uno storico e un commentatore politico che da tempo apprezziamo per il suo equilibrio: realista, ma senza paraocchi, nella sua rubrica di posta con i lettori sul Corriere della Sera, di rado delude le aspettative di chi ama le riflessioni pacate e puntuali. Dunque di chi, di fronte a eventi epocali come il Risorgimento e l’Unità, chiede che quello scenario sia evocato e rappresentato con la forza dei buoni argomenti. Perché, prima di ogni altra cosa, dobbiamo “vederci chiaro”. Ad esempio, su un personaggio cruciale per il buon esito unitario come Napoleone III.
Come è noto, nelle sale del Museo del Risorgimento di Milano, si è aperta al pubblico una mostra fotografica dedicata ai rapporti dell’imperatore con l’Italia: 12 immagini che permettono di approfondire la conoscenza degli avvenimenti storici e al tempo stesso di ammirare capolavori di fotografi illustri, “reclutati” da Napoleone III (come avvenne per Léon Méhédin durante la campagna d’Italia) per dare adeguata “comunicazione politica” ai “fatti”. La rassegna é insomma un bell’appuntamento per evocare attraverso le immagini l'”Italia che fu”, meglio l’Italia nel suo “farsi”, e per ripassarne la storia. Facendo i conti con memorie controverse. Quelle che, da sempre, si affollano su questo personaggio. Variamente giudicato, ma, in ogni caso, tutt’altro che «Napoleone il piccolo», come ebbe a sbeffeggiarlo Victor Hugo. Anzi, un grande, al di là della sua stessa discussa azione politica in patria e del modo (o dei modi) con cui intervenne nelle nostre faccende, a maggior gloria non tanto dell’Italia, quanto degli interessi politici del suo Paese (il che è più che legittimo, no?). Un “grande” dicevamo, anche perché capace di bei gesti, espressione di uno stile. Documentato. E qui torniamo all’esigenza di vederci chiaro, di sapere le cose, di raccontare fatti e personaggi nella loro complessità ecc. Dunque, anche a quel Sergio Romano che cerca sempre di “coglierla”, la complessità, stimolando la riflessione con tutte le sue risposte.
Come quella data a un lettore sul Corriere della Sera del 14 febbraio, nella quale si ricorda l’attentato compiuto contro Napoleone III dal mazziniano Felice Orsini nel 1858. La bomba avrebbe dovuto colpire nell’imperatore «l’assassino della Repubblica Romana», con un chiaro riferimento al ruolo avuto dalla Francia negli avvenimenti romani del 1849. Infatti, come scrive Romano, «i carbonari non avevano dimenticato che Luigi Napoleone, molto prima di salire sul trono imperiale, era stato carbonaro (o vicino alla carboneria) nelle insurrezioni romagnole e nelle cospirazioni romane contro lo Stato pontificio del 1830-31. Agli occhi dell’attentatore, quindi, era molto più di un nemico: era un traditore e meritava la morte». Ma il “traditore” e sua moglie uscirono indenni dall’attentato che, sul selciato dell’Opera, lasciò otto morti e centocinquanta feriti. Patriota e sovversivo, dunque, Felice Orsini: e terrorista “impolitico”, visto che il suo gesto «rischiò di alienare alla causa italiana le simpatie dell’opinione pubblica europea». Ebbene, quest’uomo – uno che per la “causa” non esitava a spargere sangue innocente – dal carcere in cui attendeva la ghigliottina scrive due lettere, una a Napoleone III, una a Cavour. In quella all’imperatore si legge: «Sino a che l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella Vostra non saranno che una chimera. Vostra Maestà non respinga il voto supremo di un patriota sulla via del patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la seguiranno dovunque e per sempre». L’imperatore, ricorda Romano, «commosso o più semplicemente attratto dalla possibilità di passare alla storia come il liberatore della nazione italiana», acconsentì a far pubblicare e divulgare la lettera. servendosene «per creare intorno alla guerra contro l’Austria un largo consenso nazionale. In Italia, contemporaneamente, la lettera divenne un foglio volante che passò di mano in mano nelle strade della penisola. Era intitolato Testamento di Felice Orsini e riproduceva, insieme al testo della lettera, il volto barbuto e gli occhi infuocati del cospiratore». Non c’è bisogno che Romano aggiunga altro: di fronte a questo “pezzo” di Risorgimento, il lettore ha a disposizione “materiali” per inquadrare e valutare eventi e protagonisti. A questo lo chiama la storia: a un giudizio. Che non impedisce all'”immaginario” di schierarsi. Ma lo obbliga anche a conoscere l'”antagonista” nella ricchezza contraddittoria delle sue motivazioni. Mi sembra che Eugenio Di Rienzo, nella imponente biografia pubblicata dalla Salerno Editrice (NapoleoneIII, pp. 720, € 30,00), sia su questa lunghezza d’onda. E dunque ci voglia presentare un personaggio ricco di chiaroscuri. La frase che campeggia in copertina, accanto all’imperiale volto dagli occhi gelidi e appassionati a un tempo (si tratta del celebre “Ritratto di Napoleone III” eseguito da Hyppolite Flandrin e conservato al Musée di Versailles), è indicativa. «Ogni giorno che passa mi dà la prova che i miei più sinceri amici non sono nei palazzi ma nei tuguri, non passano la loro esistenza sotto tetti dorati ma nelle officine e nelle campagne».
Un “fascioimperatore”, Napoleone III? Indubbiamente figlio della Rivoluzione francese e del suo spirito, dunque attratto dall’attività movimentista, cospirativa e insurrezionale, come ben testimoniano le esperienze militanti del carbonaro nello Stato della Chiesa, nell’est della Francia, in Polonia, a Strasburgo, a Boulogne, Luigi Napoleone visse il carcere come una “università”. E, borgesianamente, scopri sé stesso. Infatti, rinchiuso nella fortezza di Ham dal 1840 al 1846, si sentì e divenne sempre più consapevolmente l’erede di una dinastia nazionalpopolare e imperiale, che aveva i suoi contrassegni nel carisma e nel con-senso, investiva sulla Francia come protagonista del rinnovamento politico europeo e, d’altra parte, doveva valutare realisticamente forze in gioco e rischi. Presidente della Repubblica, quindi dittatore, infine, nel 1852, imperatore, Napoleone III, fino allora decisamente sottostimato, diventa all’improvviso un “protagonista”. Della storia francese, di quella europea e del nostro Risorgimento. Impossibile non assegnare il giusto valore al suo ruolo, alle sue mosse, alle sue scelte, dalla guerra di Crimea (1853-1856) a quella franco-piemontese contro l’Austria (1859).
E l’armistizio di Villafranca, stipulato senza avvertire Cavour? Certo, l’interruzione della guerra con la liberazione della Lombardia ma col Veneto ancora sotto Cecco Beppe, per i patrioti fu un tradimento, addi-rittura una “seconda Campoformio” (Venezia regalata all’Austria, proprio come aveva fatto il primo Napoleone, lacerando il cuore di Foscolo!). Tanto è vero che il pur pragmatico Cavour ne fu sconvolto e lasciò la guida del governo. Ma poteva Vittorio Emanuele II continuare la guerra da solo? Se ci fosse stata un’insurrezione di tipo mazziniano quali esiti avrebbe avuto? L’Europa delle teste coronate l’avrebbe potuta accettare? E l’Italia, gli italiani, il popolo volevano davvero la liberazione auspicata da Mazzini? O, nonostante tutto, le armi dell’imperatore ci garantirono un futuro? A noi, tra Risorgimenti e zone grigie, tricolori o verde-padano, l’ardua sentenza.
(Pubblicato il 5 marzo 2011 – © «Secolo d’Italia»)