di Elisa D’Annibale
Una delle novità più importanti del volume di Eugenio Di Rienzo, L’ora delle decisioni irrevocabili. Come l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale (Rubbettino Editore), consiste nell’aver svelato che anche dopo il 10 giugno 1940, Mussolini non intendeva comunque recidere il filo del colloquio con Parigi e Londra, sviluppatosi durante il periodo della non belligeranza italiana fino al 27 maggio. Quando il Presidente Roosevelt, a nome di Churchill e del Primo ministro francese Paul Reynaud, aveva chiesto al Duce, qualora l’Italia si fosse mantenuta nel suo stato di neutralità, di ottenerne l’assistenza diplomatica al tavolo di una futura Conferenza della pace, per limitare le pretese di Hitler, ottenendo, in cambio, il soddisfacimento di «tutte le richieste che, a suo avviso, potranno garantire la creazione di un nuovo ordine Mediterraneo, tale da soddisfare le legittime aspettative italiane in quel mare».
Una spia dell’apertura di Palazzo Venezia verso le Potenze occidentali, sostiene giustamente Di Rienzo, era nelle istruzioni impartite, tra il 5 e il 7 giugno 1940, agli Stati Maggiori delle nostre Forze Armate. Meno di un mese prima del finale collasso militare anglo-francese, quelle istruzioni riaffermavano e anzi restringevano, infatti, le prudentissime regole d’ingaggio fissate nel «memoriale panoramico del 31 marzo 1940. Con l’eccezione dell’offensiva italiana sulle Alpi occidentali, iniziata, dopo qualche scaramuccia, con inspiegabile ritardo, solo il 21 giugno, la guerra del Duce doveva essere, per sua stessa ammissione, la replica della Sitzkrieg («guerra seduta»), che per quasi un anno aveva opposto, in modo quasi incruento, Alleati e Tedeschi, da Mussolini soprannominata «guerra fittizia» e dal popolo italiano «guerra dei coriandoli», in ricordo delle innocue battaglie di piazza del carnevale veneziano.
Alle forze, dislocate in Libia, fu ingiunto di restare pressoché inattive, senza prendere nessuna iniziativa di rilievo, salvo qualche «pattugliamento offensivo». A quelle schierate nell’Impero che, secondo i piani del Duca d’Aosta, avrebbero potuto, seppure con enormi difficoltà, tentare di aprire una «direttissima» attraverso il Sudan per puntare sull’Egitto, venne impartito l’ordine di «mantenere un contegno strettamente difensivo». Alla Regia Marina, che era in condizioni di disturbare efficacemente, se non addirittura di interrompere, i movimenti dei convogli britannici nel Canale di Sicilia diretti verso il varco Suez (con un’iniziativa che l’Ammiragliato britannico aveva messo in conto fin dal 1936), si ordinò di aprire il fuoco solo se attaccata.
Inoltre, inconcepibilmente, fidando su una rapida fine delle ostilità a seguito della vittoria tedesca, non si provvide, in tempo utile, a far rientrare nei nostri porti il naviglio italiano, provocando la perdita immediata del 35% dell’intera flotta mercantile che fu catturata dagli Alleati. All’Aeronautica, infine, si diedero disposizioni di soprassedere «fino a nuovo ordine a qualsiasi operazione aggressiva», di vietare ai propri velivoli di portarsi a più di dieci chilometri dal confine con la Francia e di non oltrepassare, in ogni caso, la frontiera italiana. Furono, inoltre, procrastinate le incursioni su Gibilterra e Alessandria, già da tempo programmate, e si decise di rimandare e ridurre d’intensità il bombardamento aereo di Malta previsto per l’11 giugno.
La Francia agonizzante e l’Inghilterra, percossa ma non doma, la guerra, invece, continua Di Rienzo, intendevano farla sul serio. Nella notte del 12 giugno trentasei velivoli della Royal Air Force colpirono Torino «completamente illuminata, come in tempo di pace». Tra il 15 e il 16 giugno, i bimotori Armstrong del Bomber Command britannico si accanirono su Milano. Altri attacchi aerei franco-britannici sferzarono, nei giorni successivi gli aerodromi del Piemonte e della Sardegna. Anche La Spezia, Livorno, Cagliari, Trapani, Palermo subirono l’aggressione delle ali avversarie. In tutti i casi, i danni arrecati furono limitati e il numero delle vittime civili non fu elevato. Si trattò di azioni di ritorsione quasi simbolica contro il nostro ingresso in guerra, il cui effetto psicologico, però, fu devastante sul fronte interno.
Quelle incursioni, infatti, furono più che sufficienti a mostrare le lacune della difesa area italiana e la scarsa capacità di risposta della nostra aviazione. Più gravi conseguenze provocò il cannoneggiamento del litorale ligure (14 giugno), effettuato della Terza Squadra navale francese, che, dopo aver colpito gli stabilimenti industriali di Genova e Savona e i depositi di carburante di Vado, riuscì a rientrare a Tolone indisturbata senza aver subito perdite. Anche in quest’occasione, il successo dell’operazione evidenziò la pessima reattività delle nostre difese costiere, la mancanza di ogni attività di ricognizione e l’insufficiente iniziativa e lo scarso coordinamento tra Regia Aeronautica e Regia Marina che non riuscirono né a intercettare né tantomeno a danneggiare le unità avversarie.
Se questi raid provocarono una risposta italiana verso Corsica e Tunisia, con bombardamenti su Borgo, Calvi, Biserta, Mussolini tuttavia non modificò completamente la sua intenzione di limitarsi a una «guerra di parata», per non pregiudicare un’intesa con gli Alleati nelle trattative di armistizio, dove sarebbe iniziata la «guerra vera», quella da combattere contro Hitler. Il nostro combattere stupì i nostri avversari. Se nell’agosto successivo, il governatore di Gibilterra, William Edmund Ironside, confessò di non essere riuscito a comprendere la mancata tempestività dell’intervento italiano, il generale francese, Charles Léon Clément Huntziger dichiarò, con sprezzante ironia, che «L’Italia ci ha dichiarato guerra, ma non ci ha fatto la guerra, perché dichiararla e farla non è la stessa cosa».
Chi la guerra, invece, intendeva farla sul serio era il Regno Unito. Giunto a fine maggio alla consapevolezza dell’imminente conflitto con l’Italia, Churchill era convinto dell’urgenza di neutralizzare l’apparato bellico che Badoglio poteva utilizzare nel secondo «mare di casa» del Regno Unito. Il 28 maggio 1940, infatti, il premier britannico prefigurava uno scenario in cui «le forze navali combinate degli Alleati, muovendo dalle estremità opposte del Mediterraneo, dovrebbero perseguire un’offensiva attiva contro la Regia Marina». Dismettendo l’assetto meramente difensivo dei mesi precedenti, era necessario passare senza indugi all’attacco in modo da accerchiare le flotta avversaria, arrecarle gravissime perdite, privarla di ogni capacità operativa, per poi martellare dal mare e dal cielo la costa italiana, le grandi città e i suoi principali porti, in modo da «portare la guerra nella case degli Italiani».
L’arrivo al potere di un Primo ministro del tutto ostile, dopo il crollo della Francia, al partito della trattativa con Berlino, guidato da Chamberlain, Halifax, Lloyd George, potrebbe far pensare che il suo obiettivo fosse, solo e unicamente, l’avvio di una guerra ad oltranza e senza condizioni contro il nuovo avversario italiano, e alla conseguente interruzione di ogni rapporto anche sotterraneo con il Governo di Roma. Tuttavia, rileva Di Rienzo, che Churchill era stato, almeno fino alla sua ascesa alla guida del War Cabinet, uno dei principali sostenitori della linea conciliante nei confronti dell’Italia. Come supremo dirigente politico della Royal Navy, Churchill aveva insistito in diverse occasioni sulla convenienza di adottare un atteggiamento condiscendente verso le rivendicazioni di Palazzo Venezia. E il 12 settembre 1939, aveva a scritto proprio a Lloyd George, forse cercandone il sostegno, che gli Inglesi «non dovrebbero essere intimoriti dall’ostilità italiana, che certo noi non desideriamo, ma dovrebbero invece cercare di placarla».
Il 7 ottobre 1939, in un promemoria indirizzato alla segreteria dell’Ammiragliato suggeriva, inoltre, l’adozione di una serie di misure a vantaggio del nostro Paese, affermando che «l’enorme importanza di portare l’Italia dalla nostra parte rende auspicabile adoperarsi per costruire una politica di cooperazione nei Balcani, nel Mediterraneo e di reciproche riduzioni dei presidi in Libia e Tunisia». Solo dieci giorni dopo, poi, Churchill non si limitava a raccomandare l’assoluta necessità di mantenere in vita la neutralità italiana ma arrivava a considerare la possibilità di far transitare il Regno di Vittorio Emanuele III nell’alleanza della Potenze occidentali, aggiungendo che «ogni uomo di senso poteva valutare quanto fosse necessario avere l’Italia amica e quanto desiderabile averla per alleata».
La ricerca di un modus vivendi con l’Italia non venne meno neanche il 1° maggio 1940. Quando i boatos di un imminente attacco italiano contro la Jugoslavia suscitarono un convulso dibattito sulle contromisure da adottare in seno al Gabinetto di guerra. Riguardo alla proposta di un’apertura delle ostilità nel Mediterraneo come rappresaglia per un eventuale aggressione alla Nazione balcanica, Churchill dichiarava di non scorgere alcun vantaggio nell’iniziare frettolose azioni offensive quando con la semplice chiusura di Gibilterra e Suez al naviglio italiano l’Inghilterra sarebbe stata in grado di infliggere una «un danno immenso».
Infine, arrivato alla guida del Governo, Churchill intraprese l’estremo tentativo di ottenere che Mussolini lasciasse il nostro Paese estraneo al conflitto, inviando, il 16 maggio, una lettera dai toni più che concilianti al Duce. Nella corrispondenza il Master and Commander dell’Inghilterra in guerra si profondeva in esternazioni di rispetto, di stima, d’incondizionata simpatia, di ammirazione per la «Grandezza italiana» e per il suo artefice, e scongiurava il Duce di «evitare lo scontro fratricida tra due popoli eredi della civiltà latina e cristiana che avrebbero dovuto piuttosto stringersi insieme per far fronte al neopaganesimo nazista e alla barbarie teutonica».
Il 6 giugno, tuttavia, ormai certo della imminenza di una guerra con l’antico alleato, informava il Foreign Secretary Edward Wood, primo conte di Halifax, che terminato il tempo della carota, durante il quale nulla si era ottenuto, era ormai giunto il momento di inaugurare quello del bastone, e di farlo «con la massima durezza e determinazione fino a ridurre i monumenti di Roma nello stesso stato delle rovine di Pompei». Il colloquio a distanza tra Churchill e Mussolini si era, infatti, interrotto, con la secca e rancorosa missiva del 18 maggio con la quale il secondo respingeva brutalmente la mano tesa di Londra, ricordando all’inquilino del numero 10 di Downing Street «l’iniziativa presa nel 1935 dal vostro Governo per organizzare a Ginevra le sanzioni contro l’Italia, impegnata a procurarsi un po’ di spazio al sole africano senza recare il minimo danno agli interessi e ai territori vostri e altrui».
Nel suo romanzo, Dear Mussolini, pubblicato nel 2021, William J. Cornwall (un romanziere dotato di buone conoscenze storiche), ha ipotizzato invece che il commercio epistolare tra Churchill e Mussolini non cessò per tutto il corso del conflitto, forse fino ai 600 giorni di Salò, Certo, la finzione letteraria nulla ha a che fare con la storia, sostiene Di Rienzo, Eppure, l’autore de L’ora delle decisioni irrevocabili, concorda con Renzo de Felice nel ritenere che, con buona verosimiglianza, la logora borsa di cuoio nero che, il 25 aprile 1945, Mussolini trascinò con sé nella sua fuga da Milano doveva contenere almeno materiale scottante se non davvero esplosivo, Forse non dei documenti che potevano valere per l’Italia «più di una guerra vinta», come il Duce confidò al Segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini, ma probabilmente delle testimonianze in grado di mettere in seria difficoltà il Governo britannico. Allo stesso tempo, Di Rienzo reputa, però che, se questa documentazione è esistita, sia del tutto inutile cercarla perché essa è stata distrutta o sepolta in luogo inaccessibile, nei giorni immediatamente successivi l’esecuzione senza processo di Mussolini. Messa a morte resa possibile, come lo stesso Di Rienzo ha dimostrato nel saggio Sotto altra bandiera. Antifascisti italiani al servizio di Churchill (Neri Pozza Editore), da un colpo di mano ispirato da Max Salvadori e Leo Valiani allora in servizio attivo presso lo Special Operations Executive, il braccio armato dell’intelligence britannica che, nel luglio 1940, il figlio di Randolph Churchill e dell’americana Jeanette Jerome aveva posto sotto la sua diretta ed esclusiva giurisdizione.
(Pubblicato il 22 giugno 2024 © «Storia GLocale» – Recensioni)