di Paolo Soave
Il già ampio solco tracciato da Eugenio Di Rienzo nella storiografia si approfondisce ulteriormente con il volume, L’ora delle decisioni irrevocabili. Come l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, edito da Rubbettino nella prestigiosa collana “Studi internazionali” creata dal compianto diplomatico e storico Luigi Vittorio Ferraris. Dopo i recenti lavori su Ciano, Croce e D’Annunzio, Di Rienzo, storico della “lunga durata” e delle vaste prospettive, affronta uno snodo cruciale della storia contemporanea italiana, le cui conseguenze ancor oggi si riverberano non solo sulla collocazione e il ruolo internazionale del Paese, ma anche sui suoi assetti istituzionali e la sua identità nazionale. Nella sua rivisitazione del tema, l’Autore muove dalla necessità di ridimensionare vulgate e luoghi comuni duri a morire.
Non senza qualche fondamento, insufficiente, però, a comprendere il complesso e contraddittorio svolgersi degli eventi, si ritiene che quel fatidico 10 giugno 1940 il duce si giocò il destino italiano come naturale e inevitabile epilogo del progressivo avvicinamento alla Germania, che peraltro era rimasto denso di ambiguità e timori anche dopo la firma del Patto d’Acciaio. Decisamente meno credibile è che la decisione sarebbe stata indotta da una cialtronesca sopravvalutazione delle capacità militari italiane, di cui da tempo come rileva l’Autore era noto il pietoso stato. In più opere Di Rienzo ha sottolineato, infatti, come il regime avesse operato una scelta “conservatrice” anteponendo la pace sociale, una incisiva politica di lavori pubblici, l’edificazione del Welfare State fascista al potenziamento della macchina bellica (per altro dissanguata dal conflitto italo-etiopico e dal nostro intervento in Spagna a sostegno del fronte nazionalista), le cui pregresse carenze non erano state sanate dopo il noto scambio di opinioni fra Mussolini e Balbo, agli inizi degli anni ’30, nell’assumere il governatorato della Libia, durante il quale il Trasvolatore atlantico gonfiò a dismisura il numero dei velivoli della Regia Aeronautica.
Di Rienzo evidenzia come la decisione del 10 giugno 1940 culminò in una drammatica riflessione tutta mussoliniana, un calcolo che si era protratto per anni e che ruotava attorno alla capacità del regime fascista di misurarsi con gli eventi che avrebbero fatto la storia e di fronte ai quali esso doveva dimostrarsi all’altezza. Il noto “Cosa sono stato a fare venti anni qui?”, pronunciato, dinnanzi a Giuseppe Bastianini, allora ambasciatore a Londra, ben dimostra, al di là del concorso di altri fattori, l’addensarsi della fatale responsabilità su una persona, il responsabile del ventennio, tragicamente duce più che mai. Di Rienzo ci rende conto di questo arroccarsi anche psicologico, molto sofferto, di Mussolini all’approssimarsi della grande responsabilità di portare le armi contro i vecchi alleati dell’Intesa e di mettere a repentaglio una Nazione che dal 1922 aveva governato con immutato consenso.
Per far questo l’Autore ci conduce, come è nello stile già noto dalle precedenti opere, per un lungo, denso e affascinante periplo, quello della politica estera italiana, dai retaggi della fase liberale, culminata e esauritasi nella Grande guerra, fino all’emergere di un’impronta fascista. Questa politica, in realtà, continuò a puntare sulla strategia del «peso determinante», in grado di renderla arbitra della pace europea, attraverso ambiguità e oscillazioni, che si accrebbero dopo la Guerra d’Etiopia, con l’emergere della Germania nazista, presto identificata come minaccia ma anche come opportunità da sfruttare. Hitler permise a Mussolini di essere, a seconda delle circostanze, revisionista o antirevisionista, in un gioco diplomatico che in fondo esaltava la vecchia tradizione sabauda del cercare di contare in Europa più di quanto la forza del Paese consentisse.
Come Di Rienzo ha già sostenuto nella biografia dedicata al “genero di regime”, Galeazzo Ciano (Salerno Editrice), la svolta della politica estera fascista si sarebbe compiuta a seguito dell’impresa etiopica e della partecipazione al conflitto civile spagnolo, fase spartiacque della politica europea. In seguito, nonostante i ripetuti tentativi di intesa con Londra, l’attrazione di Berlino sarebbe risultata sempre meno resistibile per Roma. Fra il 1937 e il 1938 si ebbe l’apoteosi di questa politica, che alternò passi decisi verso il nuovo Reich a sterili tentativi di intesa mediterranea con Londra. Nel settembre 1937 in Germania Mussolini si spinse a dire che “quando un fascista ha un amico marcia con lui sino alla fine”. Un impegno, per il momento solo morale, ma che ebbe conseguenze fatali riguardo al disimpegno sull’Austria e l’Anschluss e sull’illusoria mediazione di Monaco.
Quella che si consumò fra Londra e Roma da quella fase sino alla seconda guerra mondiale fu, secondo Di Rienzo, una vera e propria “cena delle beffe”, resa tale dall’opposta concezione strategica che del Mediterraneo si dava, arteria imperiale per gli inglesi, spazio vitale per gli italiani, difficilmente compatibili. Se Mussolini poté contare sulla comprensione di Joseph Chamberlain, trovò in Eden un antagonista perfino sprezzante, che lo additò come “bandito”. Negli anni che precedettero la guerra tutto portò gli inglesi ad interessarsi maggiormente della Germania, per le note ragioni dell’appeasement e anche perché vi fu chi, come il liberale Lloyd George, in fondo, vide in Hitler una sorta di “George Washington tedesco”. Per il mantenimento dello status quo mediterraneo, rispetto al quale l’Italia esercitava, dall’intervento in Spagna alla propaganda filoaraba, una fastidiosa azione di disturbo, gli inglesi erano disposti a trattare purché Roma si rivelasse docile, senza inclinare ad aperta ostilità. Non per nulla fu predisposto un piano di attacco su Rodi che, se si fosse reso necessario, avrebbe dovuto infliggere un duro colpo alla credibilità del regime fascista.
Visto da Roma, anche il Patto d’Acciaio, con i suoi equivoci e l’inconcepibile leggerezza di Ciano, che lasciò ai tedeschi la stesura della bozza dell’accordo, doveva servire allo scopo di impressionare i francesi, e Mussolini ne fu il vero responsabile. La guerra, solo la guerra, avrebbe smascherato il bluff italiano, ma il duce non perse subito l’illusione di avere ancora un margine negoziale. Da un lato, con la formula della “non belligeranza”, egli volle scongiurare una nuova svolta “sonniniana” (magari vi fosse stato un Sonnino!). Dall’altro, auspicando difficoltà belliche per l’ingombrante alleato, e augurandosi «una seconda Marna» che avrebbe arrestato la cavalcata infernale delle Panzer-Division germaniche, tramite Ciano condivise con i nemici della Germania indiscrezioni sull’attacco tedesco a Olanda e Belgio. Furono gli ultimi momenti in cui Chamberlain, Daladier e Roosevelt guardarono con una pur sospettosa simpatia l’Italia, ma sempre a patto che non entrasse in guerra.
Mussolini, che Di Rienzo paragona a Napoleone III per l’inclinazione alla politica del compromesso e la riottosità a impegnarsi in conflitto con le Grandi Potenze, sembrava contrapporsi a Hitler, come il diavolo all’acqua santa, i cui successi sul campo, però, spingevano sempre più all’angolo l’Italia. Fu allora che il duce concluse la sua tormentata riflessione con il noto promemoria del 31 marzo 1940 diretto a Badoglio. In esso egli rivendicava la bontà delle precedenti scelte, perché era stato solo in ragione dell’alleanza con la Germania, ovvero di un alleato che per fare la guerra non aveva bisogno di aiuti, che l’Italia aveva potuto trincerarsi dietro lo scudo della neutralità. Ma ora che il conflitto non lasciava intravedere altra fine che una piena vittoria tedesca, non era riservata al nostro Paese altra scelta che quella di cogliere l’attimo propizio per entrare nella contesa poco prima della sua conclusione, per non venir ridotta al rango di “una Svizzera moltiplicata per dieci”, con azioni “difensive” e di contenimento, limitate nel tempo e nel dispendio di risorse. In sintesi, una “guerra parallela” a quella tedesca, passando dall’ambiguità diplomatica a quella militare.
Altro da fare non vi era, perché questa volta, contrariamente a quanto era accaduto nel 1915, inglesi e francesi non proponevano all’Italia di cambiare alleanza. E di questo Mussolini si ritenne perfino offeso. Non a caso, era stato Dino Grandi a osservare che il destino dell’Italia era di divenire nemica in tempo di guerra dei Paesi di cui era stata alleata in tempo di pace. La decisione di non ribaltare ancora una volta le alleanze sarebbe divenuta granitica nel duce a seguito della trionfale marcia tedesca verso Parigi, quella “strana disfatta” che portò al doloroso esame di coscienza nazionale della Terza Repubblica redatto da Marc Bloch. Certo, come rileva Di Rienzo, pesò anche il timore di una rappresaglia tedesca, oltre all’invito esplicito di Berlno a fare la propria parte nel Mediterraneo. Non a caso, dopo il 2 settembre 1939, vennero intensificati i preparativi per il completamento della cosiddetta “linea non mi fido”, o Vallo Littorio, eretta a difesa del vecchio confine austriaco. Segno del timore di una rappresaglia tedesca, in caso di defezione italiana dal Patto d’Acciaio, che neppure la giornata del 10 giugno rese meno assillante.
La svolta annunciata da palazzo Venezia offrì a Londra l’occasione di far capire agli italiani che quella scelta di campo avrebbe comportato gravi rischi, posizione riecheggiata dagli ammonimenti che aveva espresso, per conto di Roosevelt, Myron Taylor. Nel suo diario Ciano usò le stesse parole di Salandra nel maggio 1915: “Che Dio ci assista”. Pochi giorni dopo la Royal Air Force lanciava micidiali incursioni su Torino e la Marina francese, del tutto indisturbata, effettuava un rovinoso bombardamento su Genova e Savona. Solo allora il duce rinunciò all’intenzione di limitarsi a una «guerra di parata», per non pregiudicare un’intesa con gli Alleati nella futura conferenza di pace, dove sarebbe iniziata la «guerra vera», quella da combattere, al tavolo delle trattive contro Hitler.
Il nostro combattere senza battersi indispose il Comando supremo della Wehrmacht e stupì i nostri avversari. Se nell’agosto 1940, il Governatore di Gibilterra, William Edmund Ironside, confessò di non essere riuscito a comprendere la mancata tempestività dell’intervento italiano, poco prima il generale francese, Charles Léon Clément Huntziger aveva dichiarato con sprezzante ironia, che «L’Italia ci ha dichiarato guerra, ma non ci ha fatto la guerra, perché dichiararla e farla non è la stessa cosa». Intanto, Alexander Cadogan, il Permanent Under Secretary of Foreign Office, annotava nel suo diario che era finalmente giunto «il momento di farla pagare cara a quei cani rognosi deli italiani».
Per Churchill, infatti l’Italia avrebbe dovuto uscire dalla guerra non solo completamente debellata ma seriamente menomata della sua integrità territoriale e del tutto annullata nel suo ruolo mediterraneo. Si chiudeva drammaticamente la fase in cui Ciano, campione di quella borghesia nazionalista, socialmente rampante e salottiera, era servito allo scopo di accreditare la tesi che vi fosse un contraltare moderato a Mussolini, capace di muoversi con una certa autonomia anche in vista di una possibile successione al duce. Con chiarezza Di Rienzo evidenzia come Ciano fu in realtà il fedele scudiero di Mussolini, il volto duplice della politica estera fascista da spendere su tutti i tavoli nel tentativo, disinvolto e pericoloso, di massimizzarne i vantaggi. E non a caso la giornalista americana Virginia Cowles osservò che la presunta tedescofobia di Ciano si esprimeva prevalentemente nei circoli del tennis. Si chiudeva, così, la Belle Époque della politica estera fascista e del suo ministro, che a Myron Taylor appariva, dopo il 10 giugno, “un uomo finito, non più ammirato, ma disprezzato che aveva bellamente ingannato tutti noi”. Il drammatico passaggio dalla “guerra dei coriandoli”, come si disse in Italia, alla guerra guerreggiata fu la tragedia di un Paese intero. Si può concludere, come fa Eugenio Di Rienzo, che fu allora che iniziò quel lungo declino dell’Italia, che, con l’eccezione di alcuni fortunati tentativi di rilancio del nostro ruolo internazionale, durante la Prima Repubblica, è arrivato, accentuandosi, fino ad oggi.
(Pubblicato il 5 giugno 2024 © «Giornale di Storia» – Recensioni)