di Paolo Mieli
Nell’estate del 1936 andò in scena a Roma, al Teatro Eliseo, il Fra Diavolo di Luigi Bonelli e Giuseppe Romualdi. Sui giornali dell’epoca i critici teatrali si mostrarono entusiasti sia della messinscena che del contenuto dell’opera di Bonelli e Romualdi. Piacque molto la storia di Michele Pezza (1771-1806) che, alla testa di un’armata raccogliticcia, aveva dato del filo da torcere ai soldati francesi nell’epoca di Napoleone e aveva affascinato persino Victor Hugo. Un bandito — scrissero i giornali — «ardimentoso e tenero», «innamorato della sua terra», quasi «un eroe nazionale», «odiatore degli stranieri», «sempre pronto all’appello del suo re». Benedetto Croce, nel leggere quelle recensioni, perse le staffe e dettò di getto per «La Critica» un articolo pieno di asprezza. «Che cosa è mai questo affetto pei briganti?», domandò. «Scrittori di storie», aggiunse sdegnato, «salutano in essi — del 1799, del 1806-15, del 1860-62 — gli schietti rappresentanti del nobile sentimento nazionale contro i patrioti e liberali che s’erano appoggiati ai francesi e magari ai “piemontesi”». Poi ammise che, ai tempi di Victor Hugo, una certa idealizzazione dei briganti «e di altri delinquenti» potesse essere stata fatta per «malintesa passione di libertà». Avendo l’attenuante che un tal genere di lettura veniva fuori la prima volta «in modo irriflessivo e ingenuo», sotto «l’impulso dell’animo esacerbato e della sconvolta immaginazione». Ma quelle dei tempi successivi, nella fattispecie dell’Italia fascista di metà degli Anni Trenta, non erano altro, secondo il filosofo, che «calcolate invenzioni» inesorabilmente smentite da documenti storici. O, peggio, «viete combinazioni teatrali che non commuovono nessuno, che non attaccano più». Avevano, per i suoi gusti, il sapore di «disgustevoli e muffiti cavoli riscaldati… di quelli che neppure le bestie appetiscono».
Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico (D’Amico Editore,) aderisce sostanzialmente alla linea interpretativa che, partendo da Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti e passando per Croce, sarebbe proseguita con Gioacchino Volpe fino a Rosario Romeo, Giuseppe Galasso e ai loro epigoni. Storici che poco o nulla hanno concesso alla considerazione nei confronti di quella guerriglia che si protrasse dal 1861 al 1865 e anche oltre. Ma Di Rienzo — che pubblica in appendice l’interessante Analisi politica del brigantaggio attuale nell’Italia meridionale data alle stampe nel 1865 dal capitano del disciolto esercito borbonico Tommaso Cava de Gueva — ritiene che il brigantaggio fu sì un fenomeno banditesco, ma «anche» una «rivolta politica contro il processo di pauperizzazione del Mezzogiorno che l’unificazione comportò». Un elemento già messo in luce da Nitti, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi e persino da Volpe, storico di «adamantina fede risorgimentale», il quale ironizzò sul Mezzogiorno annesso all’Italia con il rango di «socio di minoranza nella società contratta dopo il 1860».
Che le cose siano andate così, del resto, è ampiamente dimostrato dal fondamentale libro di Vittorio Daniele e Paolo Malanima, Il divario Nord Sud nella storia d’Italia. 1861-2011 (Rubbettino Soveria Mannelli), che spiega bene come la frattura tra Alta e Bassa Italia «pressoché inesistente» fino a metà Ottocento si produsse negli anni successivi alla nascita dello Stato italiano. Per «allargarsi drammaticamente nel corso del quarantennio successivo e poi mai più ricomporsi». Un ulteriore approfondimento di questi temi è contenutanel volume di Marco Vigna, Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita (Interlinea), che fa notare questa contraddizione: se i briganti fossero stati combattenti politici con il proposito di abbattere lo Stato italiano, si sarebbero dati come obiettivo principale «la distruzione delle forze armate nonché dell’apparato amministrativo e politico» della parte annessa al nascente Stato unitario. Quantomeno avrebbero prodotto «una guerra irregolare con cui conquistare consenso tra le popolazioni». Al contrario, osserva Vigna, «le bande esibivano un disinteresse quasi totale per il conflitto con il Regio esercito, evitando quanto più possibile i suoi reparti». E «abbastanza raramente colpirono politici o funzionari». Anzi, nota ancora Vigna, «alcune di queste aggressioni sembrano essere state indotte da lotte di fazione nei paesi, vendette personali e specialmente dall’onnipresente desiderio di lucro». Nella presentazione che apre il libro di Vigna, Alessandro Barbero denuncia come la percezione del brigantaggio meridionale postunitario sia oggetto attualmente di una «inquietante operazione di stravolgimento della realtà» e di una «reinvenzione fraudolenta della memoria». Stravolgimento e reinvenzione che attribuiscono a quell’ondata di violenza «intenzioni e motivazioni in gran parte immaginarie» e impediscono di «ricavarne insegnamenti utili per capire davvero le contraddizioni irrisolte del nostro Paese».
Oggi, afferma Barbero, la memoria e, anzi, la «celebrazione» del brigantaggio, sono «in tutto e per tutto riconducibili a un movimento neoborbonico» che «le inserisce in un quadro consolatorio del tutto inventato». Con il risultato di «atrofizzarne proprio le potenzialità di critica sociale». Lo Stato contro cui si armarono i briganti non è quello vero, il Regno d’Italia degli Anni Sessanta dell’Ottocento, «governato da una destra paurosa, gretta e conservatrice, ossessionata dal pareggio di bilancio e incapace di promuovere il progresso sociale». È invece «un’immaginaria potenza straniera» variamente declinata come «i piemontesi» o «i Savoia». Immaginaria potenza straniera capace di «tutte le crudeltà per depauperare il Mezzogiorno». Quegli stessi Savoia, fa notare Barbero, a favore dei quali nel referendum istituzionale del 1946 — appena ottant’anni dopo i fatti in questione — votò, nella circoscrizione Napoli-Caserta, il 79 per cento degli elettori. E parliamo di governi, quelli degli Anni Sessanta dell’Ottocento, che ebbero spesso ministri meridionali agli Interni, all’Agricoltura industria e commercio, alle Finanze, al dicastero di Grazia e giustizia e alla Pubblica istruzione. Sicché «è chiaro che l’immagine dello Stato “piemontese” accampato nel Mezzogiorno come un conquistatore avido di saccheggio non è altro che una chimera, buona per distogliere l’attenzione dal vero blocco di potere che schiacciò i contadini di tutta Italia, li affamò con la tassa sul macinato e ben presto li costrinse a emigrare in massa».
Ma questa «chimera», puntualizza Di Rienzo, fu in qualche modo fatta propria persino da un aristocratico piemontese, Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, trovatosi a combattere nell’aquilano nei ranghi dell’esercito sabaudo tra il 1860 e il 1863. Esperienza di cui poi scrisse nel libro Il brigantaggio alla frontiera pontificia (Edizioni Polla). La «lucida intelligenza», scrive Di Rienzo, gli consentì — nonostante fosse uno «spietato fucilatore» — di analizzare con cultura e sensibilità «le cause sociali del fenomeno che era stato chiamato a soffocare nel sangue». Bianco di Saint-Jorioz criticò l’ostinazione dei suoi conterranei, i piemontesi, nel voler ingabbiare quelle terre, «senza gradualismo né preparazione», in una «soffocante armatura di leggi, regolamenti, imposizioni (nate per reggere un altro Stato, il Regno sabaudo) fino a farle morire di asfissia o di consunzione». Pervertendo, così, «il sogno della tanto vagheggiata unità ideale e politica nell’incubo di una miope e oppressiva unificazione burocratica ricalcata sul figurino della centralizzazione bonapartista». Bianco di Saint-Jorioz, ricorda Di Rienzo, «confessava che sarebbe stata preferibile, fatta salva l’introduzione dell’ordinamento costituzionale sabaudo, una prudente inerzia temporeggiatrice». Migliore sarebbe stata cioè l’adozione di una saggia «arte di non fare» che avrebbe dovuto protrarsi «fino a quando, grazie a un lento, progressivo amalgama istituzionale, il Sud fosse stato in grado di accogliere, senza scosse e senza traumi, e magari — con i necessari aggiustamenti e le idonee correzioni — il sistema di leggi, di norme e di obblighi, importati dal Regno sardo».
Da queste considerazioni venne fuori la pagina più famosa del libro di Bianco di Saint-Jorioz: «Piemontesismo! Ecco un’altra parola gravissima, dolorosissima che non dovrebbe esistere nel Dizionario italiano … Essa esprime il dualismo il quale si traduce per discordia e si sa che per discordia l’Italia fu sempre prostrata». Questo potrebbe spiegare il fatto che in alcune bande si siano talvolta «trovati fianco a fianco, soprattutto nei primi tempi, il bracciante disoccupato e l’ex ufficiale del re» come constata lo stesso Barbero. Ma finché si occulta il fatto che i nemici dei briganti erano tanto i soldati «italiani» quanto «e più la società meridionale stessa in tutte le sue forme organizzate», fino a quando non cadrà questo occultamento — denuncia Barbero — le potenzialità di ribellione insite nel ricordo popolare del brigantaggio saranno «sviate e annacquate in una dimensione mitologica che non ha niente a che vedere con i problemi reali dell’Italia di allora». Problemi che sono «diversi, beninteso, da quelli dell’Italia di oggi, ma non al punto che non se ne possa imparare qualcosa». Barbero ricorda la «memoria, certo semplificata e fuorviante, del brigantaggio» che è sempre stata «coltivata soprattutto a sinistra, proprio per le aspirazioni di palingenesi sociale che pur confusamente, e spesso ciecamente, si pensava che i briganti potessero aver incarnato». E sostiene che oggi chi coltiva quella memoria «si ritrova a braccetto con compagni di strada inquietanti, cultori di glorie dinastiche, sostenitori del trono e dell’altare». Sicché il brigante finisce per trovarsi «accomunato, in una stessa immaginaria lotta, all’alfiere borbonico che fino al 1860 gli aveva dato la caccia, con la stessa ferocia messa in campo dopo quella data dall’esercito italiano (in cui peraltro gli ufficiali dell’esercito borbonico erano, com’è noto, in gran parte felicemente confluiti)».
Un libro fondamentale per approfondire questi temi è quello di Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 (Laterza). Uno studio che Di Rienzo definisce «largo, solido, informatissimo, frutto di un lungo e faticoso lavoro di scavo archivistico, messo al servizio di una tesi forte, convincente». Quello di Pinto è il tentativo di «consegnare agli armadi che custodiscono i vestiti del passato» sia le tesi neoborboniche che quelle neosabaudiste. E di riconoscere, una volta per tutte, che il brigantaggio fu un movimento in cui militavano («insieme a nuclei di veri e propri fuorilegge» e a «formazioni di combattenti stranieri» reclutate tra le file dell’«internazionale legittimista») «masse contadine, quadri intellettuali, ceto civile, reparti del disciolto esercito borbonico, volontari provenienti dal partito liberale antiunitario napoletano e, in un secondo momento, persino numerosi garibaldini delusi». Riprendendo le tesi contenute in un saggio di Paolo Pezzino (Risorgimento e guerra civile) contenuto nel volume, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di Gabriele Ranzato (Bollati Boringhieri), Eugenio Di Rienzo sostiene che il brigantaggio può essere analizzato correttamente solo a patto di evidenziarne le caratteristiche di mobilitazione politica. Fu una guerra civile ma — come sostenne quasi un secolo fa, nel 1931, Gino Doria — probabilmente fu un prosieguo della guerra di fazione tra due Italie meridionali. Quella dei «galantuomini meridionali» — collusi con la camorra napoletana, la delinquenza comune, le mafie pugliesi, lucane, calabresi — e quella dei «galantuomini legittimisti» sostenitori e finanziatori dell’insorgenza antiunitaria.
(Pubblicato l’8 dicembre 2020 © «Corriere della Sera»