di Eugenio Di Rienzo
Mentre dall’estate del 2009 si iniziava a discutere sull’attività del Comitato dei garanti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, che in breve si sarebbe dimostrata tanto ricca di buone intenzioni quanto scarsa di risultati, un gruppo di lavoro denominato «Radioscrigno» era già impegnato nel recupero di un importante materiale praticamente sepolto nell’Audioteca della Rai. Per una fortunata ma non fortuita coincidenza, proprio ora, nel pieno delle celebrazioni dedicate alla nascita della nostra nazione, questo lavoro di scavo ha dato un primo importante risultato con la pubblicazione di alcune preziose conversazioni radiofoniche di Renzo De Felice trasmesse nel 1960, dedicate all’Idea di Europa e l’Unità d’Italia (Le Lettere, pp. 170, € 16,00). Il volume curato da Laila Cella e Elisabetta Malantrucco, accompagnato da un saggio di Paolo Simoncelli, ci offre un’inedita testimonianza sulla formazione intellettuale del giovane De Felice. Un De Felice ormai lontano dalla militanza politica nelle file del Pci e dai dogmi della vulgata gramsciana che, a partire dall’immediato dopoguerra, aveva egemonizzato la riflessione sul Risorgimento, demonizzando il significato di questo processo storico.
Con Gramsci, infatti, il processo di formazione unitaria dell’Italia venne sottoposto ad una critica spietata basata su alcuni slogan che poi sarebbero stati ripetuti dai suoi epigoni con la monotonia di un mantra tibetano. La borghesia italiana, ostinata nel rifiutare la riforma agraria e incapace di costruire un blocco nazional-popolare. Il moto unitario, rimasto estraneo agli interessi delle masse popolari e quindi divenuto uno strumento unicamente funzionale all’affermazione del ceto imprenditoriale del Settentrione. La costruzione del Regno d’Italia, infine, come genesi dello Stato borghese che avrebbe prodotto storture politico-sociali d’ogni tipo fino all’età giolittiana per poi partorire il fascismo. Da tutto questo si arrivò non soltanto ad una revisione storiografica del Risorgimento ma alla ricerca d’una sua alternativa, tutta giocata in chiave ideologica, che puntava sulla soluzione democratico-radicale o addirittura socialista della questione italiana, fantasticata da Mazzini e da Pisacane, opposta a quella liberale e moderata realizzata da Cavour.
La pochezza di questa interpretazione, assolutamente inconsapevole del contesto sopranazionale in cui si inseriva il nostro processo unitario, era stata paragonata da Federico Chabod (maestro di De Felice) a una narrazione favolistica «in cui l’Italia appare un po’ come una nuova Luna, mondo a sé, perfettamente isolato, capace di regolare da se solo la sua vita». Questo stesso richiamo all’ordine era rilanciato da De Felice nella parte più interessante delle sue lezioni radiofoniche centrate sui sentimenti di ostilità e di simpatia che il nostro Risorgimento suscitò nell’opinione pubblica e nei ceti dirigenti di Francia, Inghilterra, Prussia, Russia. Sentimenti di ostilità e di simpatia mai del tutto disinteressati, ma sempre ispirati ad una rigorosa Realpolitik. Nel 1821, il ministro degli Esteri britannico Castlereagh aveva dichiarato al Parlamento che l’unico, concreto obiettivo del suo governo riguardo allo sviluppo della politica italiana era quello di assicurarsi il controllo diretto o indiretto della Sicilia che avrebbe potuto costituire un avamposto militare per rafforzare il controllo strategico sul Mediterraneo. Quasi identiche parole utilizzava il suo successore, Palmerston nel 1860, un mese dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Pur restando convinto che l’interesse britannico sarebbe stato quello «di far sì che l’Italia meridionale restasse una Monarchia autonoma piuttosto che divenire parte di un’Italia unita, perché un Regno separato delle Due Sicilie si schiererebbe sempre a favore della potenza navale più forte e cioè con l’Inghilterra», Palmerston concludeva che, di fronte all’inaspettato successo dell’impresa dei Mille e considerando «la generale bilancia dei poteri in Europa», uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza del Regno Unito, risultava «il miglior adattamento possibile».
Nel sottolineare fortemente la dimensione europea dell’avventura risorgimentale, le pagine di De Felice forniscono un contributo importante ad evitare il consistente rischio di provincialismo che aleggia, in questi mesi, sulla sua rievocazione. Per riprendere la lezione di un altro grande analista del passato, come Gioacchino Volpe, solo la capacità di mettere in luce il «grande gioco» delle forze internazionali che ci portò a essere nazione può rendere possibile, infatti, ieri come oggi, che «la storia del Risorgimento sia trattata con spirito non da “risorgimentista”, che è una sottospecie, spesso scadente, dello storico, ma da “storico” senza epiteti».
(Pubblicato il 6 marzo 2011 – © «il Giornale»)