di Paolo Mieli
Da quando nel dopoguerra furono rese note le sovvenzioni del ministero per la Cultura popolare fascista agli intellettuali italiani, molto si è scritto su quelli (e furono in tanti) che si piegarono a ricevere emolumenti dal regime. Bei libri, niente affatto scandalistici, sono stati scritti – tra gli altri – da Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso (Laterza), e Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista (Il Mulino). Altri si sono applicati al tema degli artisti e scrittori che, pur avendo accettato quella compromissione con il fascismo, cercarono successivamente di nascondere quel loro passato. È il caso de I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948 di Mirella Serri (Corbaccio) e di Cancellare le tracce di Pierluigi Battista (Rizzoli). Ma dagli archivi continua a uscire una sempre nuova documentazione che aggiunge particolari inediti su come avvennero quei pagamenti. Un giovane storico, Giovanni Sedita, ha studiato queste carte e ne ha tratto un libro, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo (Le Lettere, pagine 246, euro 20), di grande interesse. Ne viene fuori che il 55 per cento dei sovvenzionati fissi agì in ambito giornalistico, il 22 per cento in quello letterario, il 9 per cento nello spettacolo, mentre il 15 per cento apparteneva ad ambiti diversi. Alla voce «altro» si trovano le categorie più disparate, dai famigliari di importanti personalità a tutti gli scienziati che sottoscrissero il Manifesto della razza o ebbero a che fare con quella vicenda (eccezion fatta per i professori Pende, Visco, Donaggio, Savorgnan e Zavattari).
Perché prendevano quei soldi? Scriverà in un memoriale difensivo del 27 gennaio 1945 Giuseppe Ungaretti: «Era una sovvenzione che s’usava dare – è uso esistente in tutti i paesi del mondo – a scrittori e artisti bisognosi – e la ricevettero persone onorevolissime – perché potessero seguire con tranquillità il loro lavoro». L’ averla accettata, proseguiva il poeta, «mi permetteva di dedicarmi con qualche continuità ai miei studi letterari e alla mia poesia e l’accettavo perché essa ai miei occhi non aveva diverso carattere dalla sovvenzione dello Stato all’agricoltore, perché possa portare a termine lavori di bonifica, oppure allo scienziato, perché possa proseguire le sue ricerche di laboratorio». È interessante vedere cosa emerge da queste carte a proposito di come gli intellettuali parlano di se stessi e l’ uno dell’ altro. È il caso proprio di Ungaretti, del quale Italo Tavolato nel 1942, per favorirlo agli occhi del regime, riferisce parole pronunciate in una conversazione privata: «Proclama (Ungaretti) colla massima convinzione – tanto da impressionare i suoi ascoltatori più scettici – che la vittoria dell’Asse in questa guerra è assolutamente sicura… Agli oppositori, i quali osservano che la vittoria della Germania significherebbe la sottomissione dell’ Italia, Ungaretti replica: meglio Hitler che Stalin… Nell’ ambito intellettuale in cui l’Ungaretti fa sentire la sua voce, tutti rimangono sbalorditi a sentire che un uomo così intelligente e di tanto prestigio come lui possegga una fede così profonda nella causa dell’Asse».
Più che i soldi ricevuti da questi scrittori e artisti, il libro di Sedita analizza quel che scrissero per ottenerli. C’è Vincenzo Cardarelli che chiede a Galeazzo Ciano una «sovvenzione fissa»: «Le circostanze mi hanno messo talvolta nella necessità di ricorrere alla generosità del Duce. Non so più ormai da quanti anni duri la miseria in cui mi dibatto, solo un soccorso non momentaneo potrebbe mettermi a riparo». Dello stesso tenore le lettere di Salvatore Quasimodo («l’urgenza di essere aiutato, in qualsiasi modo, interessa nel vivo i più elementari bisogni quotidiani di vita») e di Libero de Libero («un aiuto mensile, sia pure modesto, da parte del ministro della Cultura popolare, che già di tanto in tanto mi assiste, mi libererebbe da tanti vincoli e dalle angustie»). C’è Rosso di San Secondo, il quale chiede soldi denunciando la «plutocrazia ebraica» che gli sarebbe avversa. C’ è Vitaliano Brancati, che si lagna con Ciano per «quegli scrittori mediocri e di passato antifascista» che «vengono aiutati» dal regime. Lo stesso Brancati, trentenne, si candida alla direzione del «Popolo di Sicilia» scrivendo a Mussolini: «Io non mi servo di piccole scale, e mi sembra più onorevole rivolgermi direttamente al capo». Vasco Pratolini, dietro compenso, si rende disponibile per l’Ovra. Alfonso Gatto, già retribuito, passa un brutto quarto d’ora per aver dato ospitalità al pittore Guglielmo Peirce in possesso di materiale antifascista (Peirce sarà condannato a cinque anni di confino; Gatto, scagionato, si affretta a riprendere contatti con il Minculpop). Troviamo traccia di 36 mila lire date a un giovane Luigi Meneghello, redattore de «Il Veneto». E qualche compenso per Achille Campanile, Romano Bilenchi, Enrico Falqui.
Elio Vittorini, diffidato per la frequentazione di antifascisti al caffè fiorentino «Giubbe Rosse», così protesta la sua innocenza: «Il sottoscritto restava fortemente sorpreso nella sua qualità di fascista non recente e di scrittore fascista che sin da quando ha preso la penna in mano, l’ha adoperata al servizio delle idee fasciste su giornali fascisti». Qualche sovvenzione la ottiene anche Sem Benelli, l’ autore de La cena delle beffe, ma contro di lui persiste l’ostilità dei gerarchi che gli rimproverano di aver chiesto, dopo l’uccisione di Matteotti, le dimissioni di Mussolini: «Benelli è un porco!», annota il ministro Dino Alfieri a margine di una sua lettera, «non sono mai stato e mai sarò generoso con i traditori che sopprimerei immediatamente». Triste è il caso del poeta Sandro Penna, anche lui sovvenzionato ma costretto, in cambio di una modesta somma, a umilianti forme di autocensura. Su carta intestata della Reale Accademia d’Italia, il padre del futurismo, Filippo Tommaso Martinetti, sollecita e ottiene compensi per decine di suoi adepti. Fortunato Depero ringrazia con «commozione e grande orgoglio». Finanziamenti giungono perfino a Pietro Mascagni, anche se l’autore della Cavalleria rusticana, già molto ricco, potrebbe farne a meno (le ricevute sono su carta intestata all’Hotel Plaza, dove il musicista risiede quando è a Roma). E anche, per il teatro, a Tatiana Pavlova, Guido Salvini, Anton Giulio Bragaglia, Paola Borboni, Andreina Pagnani. Per il cinema ci sono versamenti a Guelfo Civinini e Corrado Alvaro «per la creazione di un soggetto cinematografico circa la redenzione delle Paludi Pontine» (soldi a fondo perduto dal momento che quel copione non troverà «collocamento»). Al critico cinematografico Mino Doletti, che si rende disponibile ad una campagna contro Charlie Chaplin mediante la pubblicazione, con il titolo Charlot, ebreo due volte, delle «memorie dell’ antica amante dell’ attore» (Luise Rainer) per «mettere in rilievo e sottolineare l’ebraismo del divo».
Moltissimi, come si è detto all’ inizio, sono i giornalisti che si prestano a ricevere compensi dal regime. Spesso si offrono. C’ è addirittura un elenco dei «fiduciari» giornale per giornale. In qualche caso quel che scrivono è originale. È il caso di Giovanni Ansaldo, antifascista all’inizio degli anni Venti poi convertito, che nel 1932, in una lettera a Leo Longanesi, scrive che in materia di «riconoscimenti al regime» ne avrebbe fatti di più «se non mi avesse trattenuto il timore di sembrare un leccapiedi dell’ ultima ora». Nonostante ciò, Giuseppe Prezzolini ironizza su Ansaldo, obbligato «per contratto ad avere opinioni precise». Per quel che riguarda le riviste culturali, vengono assegnati lauti finanziamenti, dopo che esse sono state preventivamente prese in esame collaboratore per collaboratore. E le somme vengono concesse anche quando (il caso più noto è quello di «Primato», diretta da Giuseppe Bottai) chi scrive è già in odore di antifascismo. Interessante è la documentazione che riguarda la nascita, nel 1940, de «La Ruota» di Mario Meschini e le sovvenzioni che ricevette. È una rivista, ha scritto Mirella Serri, che «non si esime dalla propaganda razzista» e ad essa collaborano Mario Alicata, Renato Guttuso, Carlo Muscetta, Concetto Marchesi e altri che sarebbero diventati comunisti. «Nessuna delle personalità inserite nel nutrito prospetto del direttore», nota Sedita, «dovette apparire agli occhi di Alessandro Pavolini, conoscitore attento della giovane intellettualità italiana, nemico del regime, se il ministro approvò di buon grado l’organigramma di redazione e l’articolato programma proposto da Meschini». Più accorto Alessandro Bonsanti chiede e ottiene un contributo per «Letteratura» e, ottenutolo, così scrive al ministro: «Vi ringrazio con grato animo della sovvenzione… destinerò la somma esclusivamente a ricompensare i collaboratori che avranno modo così di constatare ancora una volta l’ interessamento fattivo che Voi, Eccellenza, riservate alle condizioni materiali e morali degli scrittori».
Fin dalle prime pagine, appare evidente che Gli intellettuali di Mussolini non è un libro che cerca di provocare scalpore. Le lettere che accompagnarono l’esborso di denaro sono riportate in modo asciutto, quasi senza commento. In un certo senso Sedita intende essere generoso nei confronti dei personaggi di cui si occupa. «La relazione con il ministero», scrive, «fu percepita da molti come un’ opportunità individuale; tuttavia, nello stesso tempo, la cultura italiana era cosciente del vincolo contratto con il totalitarismo e altrettanto consapevolmente volle rimuovere quei gesti di partecipazione nelle testimonianze successive». È il tema già affrontato in modo approfondito da Pierluigi Battista in Cancellare le tracce. «I carteggi con il ministero per le sovvenzioni e le cifre incassate», aggiunge Sedita, «furono trascurati nella memorialistica degli intellettuali». Un caso del tutto particolare, quasi incredibile, è quello della scrittrice Sibilla Aleramo. Il regime non si limita a farle avere dei denari, ma sollecita quotidiani e periodici a occuparsi dei suoi libri. L’ 11 aprile 1933 partono otto «ordini di recensione» ad altrettanti giornali perché non trascurino la ristampa del suo romanzo Il passaggio. Malgrado ciò, lei non smette di lamentarsi. Il 14 dicembre di quello stesso anno Galeazzo Ciano fa avere a Mussolini una sua lettera in cui l’Aleramo scrive: «Vi giuro che da mesi combatto contro la tentazione del suicidio… Come salvarmi? Partire, andar lontana, forse, fra altra gente, per qualche tempo? Ma con quali mezzi? Duce, soccorretemi ancora». Quando poi, nel gennaio del ’35, un critico della «Gazzetta del Popolo» muove un rilievo a un suo libro, la Aleramo scrive ancora a Ciano: «Chiederei a Vostra Eccellenza di dare una lezione, un ammonimento esemplare all’ autore di codesto malvagio e stupido trafiletto fatto per nuocere velenosamente a una scrittrice come me, che onora in Italia e fuori, e non da oggi, la nostra letteratura».
Gaetano Polverelli per conto di Mussolini chiede alla Mondadori «una ristampa dei volumi» della Aleramo. La casa editrice, tramite il suo responsabile, così si difende dall’imposizione: «Ella sa (la lettera è a Polverelli, ndr) quanto io sia deferente verso ogni parola che mi giunga da Lei e che io considero come un ordine. Questa volta però mi consenta di dirLe che la signora Aleramo ha avuto torto di lamentarsi e di importunarLa. Noi abbiamo fatto per questa scrittrice più di quanto era umanamente possibile. Ella ha con la Casa un debito di oltre ventimila lire che non paga, mentre pretende che da parte nostra si dia alle ristampe dei suoi volumi un ritmo che non tenga conto delle effettive possibilità di vendita». Le sovvenzioni per lei sono un fiume ininterrotto fino al 1943. La Aleramo ha poi un altro record, quello della velocità nel passaggio, a guerra finita, dall’ altra parte della barricata. Nel suo Diario di una donna (Feltrinelli) – ha notato Mirella Serri – figura questo appunto datato 21 maggio 1945 (è trascorso meno di un mese dalla Liberazione): «Affocata discussione ieri a casa di Emilio Cecchi…. Emilio è ossessionato, letteralmente, dalla paura della Russia, dalla convinzione che la Russia prevarrà quanto prima sull’ Inghilterra, invaderà l’intera Europa e ne distruggerà per sempre la civiltà. “Si salverà”, continuava a ripetere, “qualche briciolo di fede cristiana, in qualche vecchiarella che biascicherà il pater a ginocchi…”. Io ero la sola a parteggiare senza restrizioni per l’ avvenire che la Russia ci prepara di giustizia e di pace, quando tutti avremo accettato i suoi principi (rivoluzione francese più marxismo)».
Non tutti si comportarono come gli scrittori, i giornalisti e gli artisti fin qui descritti. Ci furono molti intellettuali che non ebbero finanziamenti dal regime. E anche qualcuno (pochi, pochissimi, a dire il vero) che li rifiutò. Un caso per tutti, quello di cui all’ interessante e non abbastanza conosciuto libro di Pasquale Iaccio Un intellettuale intransigente: il fascismo e Roberto Bracco (Guida). Bracco era un drammaturgo amico di Benedetto Croce. Nel 1929 una sua pièce, I pazzi, interpretata da un’ attrice all’ epoca assai nota, Emma Gramatica, gli era valsa l’ ostilità dei fascisti e la qualifica di «noto oppositore». A metà degli anni Trenta Bracco era gravemente malato e versava in condizioni di assoluta indigenza. La Gramatica, che pur essendo venuta a patti con il fascismo (accettandone le sovvenzioni) gli era rimasta fedele, aveva scritto a Dino Alfieri chiedendogli se poteva «trovare un modo pietoso per alleviare la vita che si spegne di quest’ uomo di ingegno che ha avuto gravi torti ma non ha mai fatto nulla di male, e se non ha tentato nulla per superare i suoi errori non è stato per orgoglio ma per dignitoso silenzio temendo di essere mal giudicato». Mussolini vide la lettera, la sottolineò con la matita rossa e dispose «d’urgenza» che gli fossero assegnate diecimila lire. Il ministro della Cultura popolare allora fece consegnare «ben volentieri» (così era scritto nel biglietto d’ accompagnamento) la somma alla Gramatica. Ma il drammaturgo rifiutò la regalia. Nel gennaio del 1937 l’ attrice si vide costretta a restituire la somma al ministro, accompagnandola con una sua paginetta in cui si scusava di «averle procurato un’ inutile buona azione». E con una lettera dello stesso Bracco: «Eccellenza, per una serie di circostanze che sarebbe qui inutile precisare, mi è pervenuto con molto ritardo lo chèque di Lire diecimila da Lei inviatomi… Una profonda e benefica commozione ha prodotto in me l’ atto generoso da Lei compiuto con eleganza di gran signore e con una squisita riservatezza, in cui ho ben sentito la bontà e la comprensione di chi amorosamente e validamente vigila le sorti della famiglia artistica italiana. Ma la commozione profonda e benefica non deve far tacere la mia coscienza di galantuomo la quale mi avverte che quel denaro non mi spetta». Il drammaturgo aveva allora 76 anni. Avrebbe vissuto ancora fino al 1943. E quei soldi sarebbero stati più che utili ad alleviargli le sofferenze nei suoi ultimi sei anni di vita. Ugualmente, però, non volle prenderli, neanche per interposta persona. Il regime, scrive Sedita, «abituato ad acquistare la riconoscenza e il consenso degli intellettuali, seppure in un contesto privato, aveva subito uno smacco». Bracco aveva risposto con un garbato ma secco «no». Per una volta, prosegue lo storico, «i ruoli si erano invertiti: il regime proponeva e l’intellettuale rifiutava». Mussolini se ne ebbe a male. Nel fascicolo del drammaturgo è conservata la seguente nota: «Il Duce ha detto che è andata male. La Gramatica doveva prima essere certa dell’ accettazione. Desidera che Vostra Eccellenza (Dino Alfieri) ne riparli a Lui».
(Pubblicato il 1 giugno 2010 – © «Corriere della Sera»)