di Eugenio Di Rienzo
È ormai dimostrato che i boati mediatici e le polemiche ideologiche che si concentrano su date fatali, come quelle del 28 ottobre 1922, del 10 giugno 1940, del 25 luglio 1943, poco giovino a una corretta analisi di quegli eventi. Ma che anzi li deformino con interpretazioni tendenziose mirate a scoraggiare i tentativi di cogliere la verità storica in tutta la sua complessità per ridurla a una narrazione “convenzionale”, comune e dominante, spesso condizionata da scontate logiche di parte e di partito. Ritornare a riflettere sul passato, con indipendenza intellettuale e con l’apporto di una documentazione inedita, dovrebbe, al contrario, costituire il primo obiettivo del mestiere dello storico, senza per questo edulcorare la tragicità di avvenimenti troppo spesso ridotti a una pretesa inconfutabilità banalizzante e molto spesso falsificante.
Nel mio nuovo lavoro, L’ora delle decisioni irrevocabili. Come l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale (Rubbettino Editore), ho cercato di ribaltare la vulgata che ha sostenuto che l’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, sia stata la conseguenza necessaria dell’affinità ideologica tra il Reich hitleriano e l’Italia. L’Asse Roma-Berlino, rimase infatti, anche dopo il primo settembre 1939, un’alleanza del tutto anomala, attraversata dal timore del Duce che una vittoria schiacciante della Germania nel nuovo conflitto si sarebbe potuta rivelare fatale per le sorti del nostro Paese.
Mussolini, infatti, non escludeva di far seguire al 22 maggio 1939, data della firma del Patto d’Acciaio, un nuovo 26 aprile 1915, quando il nostro Paese, volta le spalle agli Imperi centrali, si era associato alla Triplice Intesa. Il 14 settembre, quattordici giorni dopo l’aggressione tedesca alla Polonia, il Nunzio a Parigi, Valerio Francesco Valeri, riferiva, infatti, al Segretario di Stato Luigi Maglione che «elementi consapevoli della capitale francese davano per certa la chiara intenzione di Mussolini a rimanere fuori del conflitto e di considerare la neutralità corrispondente all’interesse dell’Italia e del mondo intero». Altre notizie diffuse dalla stampa parigina si spingevano ancora oltre, aggiungeva Valeri, e stimavano possibile «un eventuale ingresso in guerra dell’Italia favorevole agli Alleati».
Che le notizie raccolte dal Nunzio non fossero semplici illazioni lo dimostrava il colloquio di fine novembre 1939 tra il Duce ed Emilio De Bono. Allora Mussolini si aprì a tal punto con il vecchio Maresciallo d’Italia da confessargli che non si doveva trascurare la possibilità di «muovere contro la Germania». Del resto, Mussolini, prima e dopo la firma del Patto d’Acciaio, non aveva mai celato ai vertici militari che le recenti scelte di politica estera non dispensavano l’Italia dal serrare le «porte di casa sul Brennero».
Il dispositivo militare italiano doveva, quindi, essere puntato sia verso ovest, per fronteggiare Francia e Regno Unito, sia verso nord-est, dove era necessario essere ben preparati per garantirsi da un’aggressione tedesca. Come il Duce aveva raccomandato sempre a De Bono, il 16 agosto 1939, toccava proprio a lui, che era stato nella primavera del 1918 l’eroico difensore del Monte Grappa, di eseguire, ora, «un’accurata ispezione delle più importanti difese lungo il nuovo confine germanico», per mettere l’Italia al riparo dall’invasione dei «nuovi Goti ». Con questo stesso obiettivo, Mussolini aveva ordinato di affrettare la costruzione del Vallo Alpino Settentrionale (poi battezzato «Vallo del Littorio»): la cosiddetta «Linea non mi fido» che, grazie alla spesa preventivata di circa un miliardo di lire, doveva sigillare ermeticamente il vecchio confine con l’Austria.
Ancora nel marzo 1940, mentre il Duce incaricava Caviglia di redigere una dettagliata relazione sulla tenuta delle piazzeforti della frontiera alpina in caso di una calata in massa delle forze tedesche, Ciano faceva osservare agli ambasciatori di Francia e Inghilterra che le Forze Armate italiane avevano ricevuto l’ordine di restare attestate, in posizione difensiva, sul vecchio confine austriaco mentre era del tutto da escludersi una loro utilizzazione offensiva verso il confine francese.
Per mantenere il nostro Paese in questa posizione di neutralità armata e vigliante verso il socio tedesco, molto, anzi, moltissimo, avrebbero contato naturalmente le scelte di Londra e Parigi. Già prima della firma del Patto d’Acciaio, era, infatti, noto al Quai d’Orsay che Ciano considerava l’atteggiamento ostile delle Potenze occidentali come la causa prima della deriva filotedesca della politica estera italiana. In un colloquio con l’Incaricato d’Affari russo Lev Borisovic Helfand, il «generissimo» aveva, infatti, deplorato l’eccessiva arrendevolezza verso il Reich dimostrata da Chamberlain e Daladier, tacciando di pura idiozia la marginalizzazione alla quale essi condannavano l’Italia col risultato di limitarne la capacità d’azione.
Puntando su questo stesso argomento, Ciano, agli inizi della prima settimana del luglio 1939, rivelava a Helfand che i lavori sul Brennero proseguivano attivamente, nel chiaro intento di far arrivare questa notizia a Londra e Parigi. Il gioco di rimbalzo riusciva perfettamente. Il 6 luglio, infatti, l’ambasciatore inglese a Roma Percy Loraine annunciava al ministro degli Esteri, Edward Halifax di aver appreso dal diplomatico sovietico che gli Italiani erano impegnati a erigere «possenti fortificazioni sulla frontiera con la Germania». Nel suo rapporto, Loraine aggiungeva che il responsabile di Palazzo Chigi aveva motivato questa titanica impresa, affermando, con falso candore che «anche avendo dei fratelli come vicini, era opportuno essere in grado di chiudere loro la porta di casa se si fossero verificati disaccordi o malintesi»
La stessa notizia era pervenuta, il 31 ottobre 1939, al Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill, il quale riferiva al Gabinetto di Guerra, che «secondo rapporti ricevuti da fonte riservata, gli Italiani erano attualmente occupati a potenziare la linea difensiva sul passo del Brennero». Non era questa, davvero, «voce dal sen fuggita». Il timore di una rappresaglia tedesca, se l’Italia fosse venuta meno al vincolo di alleanza, continuò a essere forte in Mussolini fino al 10 giugno 1940. Ancora, il 21 aprile di quell’anno, infatti, il Duce, constatato il ritardo nel completamento delle difese sulla frontiera dolomitica, confessava a Ciano, Balbo e Grandi di «nutrire forti preoccupazioni sulle reazioni di Hitler e di paventare che l’Italia settentrionale potesse essere devastata dalla guerra».
Infine, proprio il 10 giugno 1941, alla data del primo anniversario dell’inizio delle ostilità, Mussolini, preso atto della progressiva e inarrestabile corrosione delle nostre posizioni in Croazia ad opera dei Tedeschi (da lui definiti «canaglie in male fede»), annunciava la sua determinazione a proseguire nel completamento della «Linea non mi fido». Solo un mese dopo, il Duce rincarava la dose. In uno dei suoi cronici «sfoghi germanofobi», dichiarava che era indispensabile «mettere migliaia di cannoni lungo i fiumi del Veneto, perché sarà da lì che i Tedeschi lanceranno l’invasione delle nostre terre e non attraverso le forre dell’Alto Adige ove sarebbero facilmente maciullati». E aggiungeva che, per impedire che l’Italia finisse nella lista delle «Nazioni vassalle» del Reich, bisognava augurarsi «che la guerra che Hitler meditava di fare contro la Russia sia per la Germania, lunga e spossante tanto da terminare attraverso un compromesso che salvi la nostra indipendenza».
In realtà, i lavori del Vallo Alpino Settentrionale sarebbero stati rallentati nell’ottobre del 1941, per le ormai non più contenibili pressioni di Berlino, fattesi ancora più insistenti dopo l’invasione dell’Urss. Quei lavori, però, ripresero alacremente, nell’estate del 1942. Forniva questa notizia a Comandi britannici, Wilhelm Josef von Thoma, uno dei più brillanti ufficiali superiori delle forze corazzate germaniche, catturato, il 5 novembre 1942, al termine della terza battaglia di El Alamein. Nel corso del suo viaggio di trasferimento verso Londra, von Thoma che era divenuto il comandante dell’Afrikakorps, riferiva al Vice-Maresciallo dell’Aria, Alfred Conrad Collier, che i rapporti tra Roma e Berlino erano ormai arrivati ai minimi termini, come testimoniava la febbrile attività per ultimare la poderosa cintura di fortificazioni sulla frontiera alpina. Il frettoloso completamento del «Vallo del Littorio» faceva prevedere, infatti, che il Duce, accarezzando l’idea di sganciare l’Italia dal conflitto e tentare un’accostata verso gli Alleati, volesse prepararsi a fronteggiare la durissima ritorsione tedesca che necessariamente avrebbe fatto seguito a quel cambio di fronte.
(Pubblicato il 16 giugno 2024 © «il Quotidiano del Sud» – L’Orologio della Storia)