di Franco Cardini
Si fa troppa metastoria, si fa addirittura troppa “teologia laica” déguisée da “questione morale”, tutte le volte che si parla di fascismo e/o (e/o?) di nazismo come “Male assoluto” – categoria teologica o retorica, non storica –, dimenticando i valori storici concreti e sacrificandoli sull’ara della retorica conformista. Eugenio Di Rienzo, contemporaneista della Sapienza di Roma tra i più lucidi e preparati continuatori senza retorica della severa scuola defeliciana che fa parlare i documenti, ha voluto, in un clima odierno alquanto (diciamolo vichianamente) “perturbato e commosso”, affrontare di petto un tema arduo e temibile come il vero “inizio della fine” del fascismo: la sconsiderata decisione mussoliniana di entrare in guerra, in quell’inizio di giugno del ’40 in cui i tedeschi stavano per entrare a Parigi. Un cinico mezzuccio per entrare a quello che sembrava l’ultimo istante sul proscenio guerriero e comodamente sedere al tavolo dei vincitori al prezzo di un “mucchietto di cadaveri”, come più o meno sguaiatamente si espresse Mussolini scopiazzando peraltro, a quel che pare, una non meno sguaiata espressione del suo maestro Camillo Benso conte di Cavour: perché la mossa del ’40 è una squallida fotocopia dell’invece fortunata – ma non meno fellona – entrata nel gennaio del 1855 del regno di Sardegna nella guerra di Crimea.
Ma su tutto ciò impazzano ancora le polemiche: e ciascuna parte in causa ha il suo bravo dossier diplomatico e documentario da esibire. Davvero Mussolini poteva essere tanto disinformato sull’inadeguatezza delle forze armate italiane a entrare nel teatro di una guerra che pure sembrava alla vigilia della fine, magari “senza vincitori né vinti” (almeno tra Gran Bretagna e Germania, beninteso)? O il giocoliere di Palazzo Venezia si stava apprestando a un altro dei suoi bluff, lui che sulla sua abilità di bluffatore si era costruita una carriera, persuaso che l’esercito di latta italiano avrebbe potuto limitarsi a qualche passeggiata tra Francia sudorientale e litorale nordafricano? E il Potente Alleato Germanico, intanto, che cosa stava esigendo da lui, e che cosa gli stava promettendo – o minacciando? Ma era poi davvero così “solo al comando”, il Duce, in quel momento, o così accecato dalla sua megalomania, o davvero tanto circondato solo da servi e miserabili opportunisti? E poteva davvero sentirsi così sicuro da infischiarsene del papa e del consiglio di tanti capi di stato esteri, a cominciare da quel Roosevelt ch’era stato del resto, e forse era ancora, un suo ammiratore disposto a mediare? Sono tutte domande che Di Rienzo si fa in L’ora delle decisioni irrevocabili. Come l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale (Rubbettino, pagine 269, € 22,00).
Vi sono ancora molte chiazze di buio nel retroscena diplomatico delle vicende che condussero a quel giugno ’40. Certo, Mussolini era schiacciato tra il suo delirio di onnipotenza, i segnali contrastanti che gli provenivano dalle cancellerie inglese, statunitense e tedesca e l’irresponsabile inadeguatezza diplomatica di suo genero Galeazzo Ciano; ma al tempo stesso il suo vecchio cuore soreliano e maurrassiano aveva sperato fino all’ultimo in un nuovo “miracolo della Marna”: e il suo crescente garbuglio di sentimenti (non corrisposti) provati per Hitler, dall’odio al complesso d’inferiorità, faceva il resto. Di Rienzo ci guida magistralmente tra queste secche politiche e questi scogli diplomatici: e alla fine, documenti alla mano, ci mostra un Mussolini deciso a entrare in guerra per partecipare ai negoziati di pace chiedendo un giolittiano “parecchio” a favore del suo “vecchio amico” Churchill, e spinto proprio da lui. Mentre Franco poteva resistere alle profferte di Hitler trincerandosi dietro il credibile alibi del cumulo di rovine in cui era ridotta la Spagna uscita da tre anni di guerra, Mussolini entrava in guerra contro il Regno Unito proprio come “quinta colonna” di esso, confidando di poter ottenere non solo una discreta flessibilità del compiacente alleato d’acciaio berlinese nell’area balcano-danubiana, ma anche un trattamento generoso nei confronti dell’ancor ben saldo impero britannico in cambio di un buon compenso afro-settentrionale e afro-orientale dalla Francia ormai alle corde e dalla riconoscente Inghilterra. Un po’ di Tunisia, Gibuti, magari un bel pezzo di Palestina per rafforzare la sua posizione sul Canale di Suez: in fondo, il re d’Italia era autorevole pretendente al trono di Gerusalemme. Ce ne sarebbe stata, di roba…
Cambiando scenario, il Mussolini emaciato, distrutto dall’ulcera, la barba lunga e l’uniforme stazzonata senza gradi che cerca di sconfinare in Svizzera a fine aprile del ’45 non aveva poi tutti i torti tenendosi ben stretta quella borsa di documenti che gli sarebbe servita, sperava lui, in eventuale sede di processo. Proprio quella che sir Winston era deciso a non lasciare nelle mani del suo vecchio amico dei tempi di Stresa.
(Pubblicato il 25 agosto 2024 © «Avvenire»)