di Armando Pepe
A cent’anni dalla morte, diverse sono le pubblicazioni in uscita sulla figura di Giacomo Matteotti, originario di Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, politico e parlamentare socialista, di orientamento riformista. Dei volumi a lui dedicati se ne prendono in considerazione tre: 1) il breve e incisivo profilo biografico tracciato da Piero Gobetti, scritto in presa diretta, durante il 1924, poco dopo la morte di Matteotti e pochi mesi prima della morte dello stesso giornalista torinese, con un saggio storico introduttivo di Pier Franco Quaglieni; 2) il volume di Antonio Funiciello, agile e complessivamente inappuntabile; 3) il libro di Massimo Luigi Salvadori, che raccoglie e mette assieme interpretazioni, riflessioni e riporta alla luce la cronaca del poliedrico intellettuale Andrea Caffi, che si rivela un preciso rendiconto dei giorni in cui il cadavere dell’onorevole socialista fu ritrovato. Conviene una lettura sinottica, di più saggi su di uno stesso argomento, perché Matteotti merita non solo per la complessità del suo pensiero ma anche per l’attualità delle sue idee, che per certi versi rimangono più che mai attuali.
Scrive Quaglieni nell’introduzione che «Il delitto Matteotti suscitò reazioni profonde in Italia e all’estero, mettendo in forse la sopravvivenza del I Governo Mussolini, che era allora un Gabinetto di coalizione. Dopo il delitto Matteotti, uscirono dal Governo Alessandro Casati e Gino Sarrocchi, quest’ultimo malvolentieri. Sarrocchi di fatto continuò a sostenere il fascismo. Tra gli oppositori del fascismo il delitto provocò un effetto fortissimo. Anche in Gobetti, che ebbe la capacità e l’intuizione di vedere cosa fosse veramente il fascismo al là delle apparenze fin dall’inizio (Quaglieni, p. 8). Matteotti, osserva con acuta sintesi Quaglieni, «Cominciò ad assumere una posizione importante quando nel 1922, espulso con Turati e i riformisti dal partito socialista che nel 1919 aveva già subito la scissione comunista nel congresso di Livorno, divenne nell’ottobre Segretario del nuovo partito che si chiamò, non senza suscitare una certa ilarità, Partito Socialista Unitario. Matteotti, che si era battuto per il mantenimento dell’unità socialista, si impegnò attraverso il PSU a tentare una riunificazione che una parte del nuovo partito non voleva. Aveva aderito al nuovo partito non tanto per simpatia verso Turati ma soprattutto per il suo convinto anticomunismo e netto rifiuto del bolscevismo sovietico. Fu sua preoccupazione viaggiare in Europa per stabilire rapporti con gli altri socialisti per inserire il PSU nel movimento socialista internazionale non succubo di Mosca» (Quaglieni, p. 14). In appendice, prima del saggio gobettiano, è inserito il resoconto stenografico dell’ultimo vibrante discorso che Matteotti tenne alla Camera dei deputati, il 30 maggio 1924, quando con inusitato coraggio denunciò le violenze fasciste con relativi brogli. I lettori più attempati certamente ricordano «Il delitto Matteotti», un film del 1973, diretto da Florestano Vancini, in cui il parlamentare socialista era interpetrato, magistralmente, da Franco Nero. Tuttavia, il pregio del volume è la ripubblicazione integrale del saggio scritto da Piero Gobetti per la casa editrice Piero Gobetti Editore (Torino, 1924). I titoli dei capitoli, che scorrono via con leggerezza e profondità come se si leggesse un pamphlet, racchiudono i punti chiave della visione matteottiana secondo la prospettiva gobettiana. Occorre citarli per avere una più chiara cognizione dell’opera duttile e raziocinante, prodiga di una chiarezza di pensiero di marca torinese, a pieno titolo illuministica:
1) L’intransigente del “sovversivismo”;
2) L’aristocratico del “sovversivismo”; il cui lungo incipit è:
«Matteotti non fu mai popolare. Tra i compagni era tenuto in sospetto per la ricchezza: gli avversari lo odiavano come si odia un transfuga. Invece Matteotti era un aristocratico di stile, non di famiglia. Il suo socialismo non è la ribellione avventurosa del conte [Antonio] Graziadei che abbandona una famiglia secolare e, rompendo le tradizioni, accetta la vita dello studente spostato con l’amante intellettuale che diventerà la moglie inquieta della famiglia piccolo-borghese, come succede ad ogni buon nihilista – fedele al programma demagogico di andare al popolo.
Invece Matteotti si iscrisse al Partito Socialista a 14 anni, probabilmente senza trovare grandi ostacoli in famiglia, forse anche ignorando la fortuna del padre – che del resto non era più che mediocre. Era socialista già il fratello Matteo, che lo precedette negli studi di legge e pare che lo iniziasse, con qualche influenza, nonostante la morte precoce, a trent’anni». (Gobetti in Quaglieni, p. 47). (La lunga citazione serve a dipanare il filo che si snoda lungo il libro di Antonio Funiciello, come si vedrà tra poco);
3) La lotta agraria nel Polesine;
4) Il socialista persecutore di socialisti;
5) Il nemico delle sagre;
6) Il suo marxismo;
7) Il suo antifascismo;
8) Il volontario della morte.
Degna di nota è poi la fototeca del delitto Matteotti, un punto di forza del libro di Quaglieni.
L’unica nota dissonante consiste nell’adombramento, a cui si presta vera fede, dell’assioma di Renzo De Felice, il quale «non senza ragioni ritiene che Mussolini non sia stato il mandante» dell’omicidio di Matteotti. (Quaglieni, p. 16). Una tesi già aborrita dallo storico Marco Brunazzi, che, vent’anni fa, recensendo il libro di Giuseppe Tamburrano, dal titolo Giacomo Matteotti. Storia di un doppio assassinio, scriveva, -si perdoni la lunga ma doverosa citazione-, «al contrario Tamburrano, dopo aver ricostruito nella prima parte del libro una biografia privata di Matteotti non meno interessante e significativa di quella politica, una biografia civile appunto, quale era nelle note morali ed esistenziali del protagonista, si dedica nella seconda a quello che giustamente definisce come “doppio assassinio”. Si trattò, infatti, non solo della sistematica repressione di ogni tentativo di perpetuare negli anni il ricordo del martire, ma anche di procedere a quella che [Roberto] Farinacci definiva come “smatteottizzazione” della memoria politica, quasi prefigurando velleità e presagi di un totalitarismo di futuro sapore orwelliano. Ma dove l’abiezione morale toccò il suo culmine fu nell’assidua, implacabile opera di sollecitazione alla “compromissione” nei confronti della vedova, Velia Titta, che fu attirata con blandizie e minacce ad accettare incauti contatti e attenzioni che miravano a rilegittimare l’immagine dell’assassino, che si proponeva quasi pietosamente benevolo nei riguardi della sua stessa vittima. Così, mentre si è indotti a giudicare prioritariamente l’adeguatezza della reazione della vittima al sopruso che subisce, passa in ombra la responsabilità morale di chi pone la vittima stessa in quella penosa condizione. Tamburrano denuncia con grande vigore questa estrema indegnità morale dei carnefici di Matteotti e insieme richiama il più generale tema della valutazione da dare nei confronti di quei regimi che obbligano i cittadini all’alternativa drammatica tra la resistenza eroica e la penosa rassegnazione alla sottomissione. Che non accada, come invece sempre più di frequente avviene ad opera di una pubblicistica fatua e presuntuosa, che si mettano sul banco degli imputati morali della storia le vittime, che non avrebbero saputo resistere abbastanza fieramente, piuttosto che i carnefici che le hanno rese tali». Matteotti fu la vittima sacrificale della morente democrazia italiana, ucciso dal fascismo, da sicari fascisti, tra cui Amerigo Dumini, che facevano capo a Benito Mussolini, il vero mandante morale.
Fare storia con i pretesti, cercare degli spunti fasulli, non fa onore alla ricerca.
Del tutto diverso è l’approccio di Antonio Funiciello, che si tiene lontano, come esplicitamente sostiene il titolo del suo libro, dalla morte di Matteotti, cercando nella sua vita le ragioni della modernità del suo pensiero. Funiciello è un narratore, con il gusto dell’affabulazione, che pigia tasti e gioca su altrettanti toni. Ne coglie l’aspetto maieutico, che poggiava, e lo fa ancora, su di un sostrato granitico, privo di ambiguità e puro come cristallo di rocca. Emerge un Matteotti coriaceo e tenero, ossimorico nelle proprie intime fibre, impavido contro il fascismo, tenero con la famiglia. Parallelamente, ricorda Giovanni Amendola o Piero Gobetti, quegli uomini la cui vita interiore travalicò la precoce morte, perché forti erano i loro sentimenti e ideali, portati avanti fino all’estremo sacrificio. Prima di ogni capitolo, per aiuto al lettore, Funiciello mette un abstract, enormemente utile per orientarsi. Poi, cosa estremamente ragguardevole, mette in risalto la tenacia di Matteotti, pari al suo pragmatismo, avulso da rimasugli ideologici privi di fondamento, poiché, seguendo la massima turatiana, «bisogna che la teoria diventi prassi». Matteotti era moderato, realista, studioso di economia e diritto, pacifista ad oltranza, appassionatamente socialista, favorevole sinceramente all’istruzione di tutti, perché un popolo non istruito si presta ad essere facilmente gabbato. Questo è un punto vero, valido per sempre, per tutte le stagioni. Il ragionamento di Funiciello accusa un momento di debolezza quando adduce che Gobetti, scrivendo «Matteotti non fu mai popolare», abbia avuto una visione riduttivistica se non miope dell’attività matteottiana. Scrive Funiciello che «L’impopolarità è per Gobetti la matrice della sua intera vicenda politica, che dimostra quanto “aristocratico” sia il suo “sovversivismo”. E qui cominciano i problemi della lettura gobettiana. Definire impopolare un uomo che ha partecipato a mille elezioni, locali e nazionali, e le ha vinte tutte, risultando anche il primo degli eletti in Parlamento senza neanche fare campagna elettorale, è piuttosto bizzarro, oltre che falso» (Funiciello, p. 43). Appare, in verità, un po’ ingeneroso e tranchant nei confronti di Gobetti che capì indubbiamente la grandezza dell’uomo e del politico Matteotti, che stava davanti di molte miglia alla media della classe politica italiana del tempo. Però la passione e la foga di Funiciello, che a tratti ha una prosa alla Stefano Massini, invitano ad una cogente lettura.
Il libro di Massimo Luigi Salvadori è succoso e va dritto al punto, usando una secchezza di scrittura che illustra nel dettaglio, e senza orpelli, il filo conduttore, la parabola umana e politica, di Matteotti, le sue antinomie verso i comunisti che invano volevano replicare la Rivoluzione d’ottobre, cosa impossibile, essendo le condizioni italiane opposte a quelle che si vivevano in Russia. Salvadori enuclea i termini della difficile eredità immateriale di Matteotti, contrastato dai comunisti sia in vita sia dopo la morte. Fu figlio ingrato però anche il Partito Socialdemocratico Italiano.
Bibliografia:
(Pubblicato il 18 maggio 2024 © «Storia GLocale» – Recensioni)