di Eugenio Di Rienzo
Dunque il piccolo «grande dibattito» sull’identità nazionale, lanciato dal Giornale (essereitaliani@ilgiornale.it), è arrivato a termine con risultati che paiono davvero insperati e sorprendenti rispetto anche alle aspettative più ottimistiche. Per chi, guardandoci proporre questo referendum, aveva sperato che il suo esito sarebbe stato quello di mettere a nudo una Nazione divisa, scoraggiata, impaurita, pronta a ripetere l’eterno ritornello sulla «vergogna di essere italiani», preda dei particolarismi regionali, chiusa nell’egoistica ricerca del suo «particulare», la delusione deve essere stata forte. Certo nei tantissimi messaggi dei lettori non mancavano neanche questi stati d’animo ma alla fine mi sembra abbia prevalso su tutto un orgoglioso sentimento di appartenenza, espresso però senza arroganza, senza sciovinismo, senza nazionalismo direi.
Non pochi sicuramente hanno ribattuto rivendicando la loro identità padana, veneta, lombarda, toscana, altri, dal Sud, hanno ricordato loro eterna condizione di «cafoni» colonizzati dall’«invasione piemontese» del 1860, ma queste risposte mi paiono derivare in fondo da un diffuso e giustificato sentimento di «antipolitica» per i tanti periodi di malgoverno che si sono succeduti nella Penisola più che da un vero e proprio distacco dalla nostra Vaterland. Proprio a questi «antitaliani» costretti ad esserlo, forse contro la loro stessa volontà, vorrei però sommessamente replicare con i fatti della storia, scegliendo come banco di prova il terreno economico. Prima dell’unificazione, aveva ricordato Rosario Romeo nel suo Risorgimento e capitalismo, l’Italia era un paese fortemente sottosviluppato rispetto non soltanto alle grandi compagini statali di Francia e Inghilterra, ma anche a molte altre regioni europee. Lo era più nel Mezzogiorno, senza dubbio, dove il retrivo governo borbonico rifiutava di mettere in moto ogni processo di modernizzazione, ma lo era anche al Nord, dove le strutture produttive e quelle creditizie avevano conservato una fisionomia funzionale soprattutto alla configurazione eminentemente agraria, commerciale, proto-industriale dell’economia della Penisola. Nei decenni successivi al 1861, questa situazione muta però profondamente, il prodotto nazionale lambisce la media europea, la creazione di un grande mercato unificato stimola produzione e consumo, una nuova, globale strategia di sviluppo, già sperimentata con successo in Piemonte, si dimostra capace di garantirci una posizione dinamica all’interno della nuova divisione del lavoro internazionale creata dalla rivoluzione industriale.
Francamente dubito che questi stessi risultati avrebbero potuto essere raggiunti anche in un’Italia federale. La scelta del federalismo, del tutto auspicabile oggi, non lo era allora sul piano economico. Né poteva esserlo su quello politico, quando la giovane indipendenza del nostro paese era minacciata dalla controffensiva di Austria, Prussia, Russia, quando la Francia di Napoleone III, che pure ci regalò la vittoria di Solferino, guardava con diffidenza la nascita di una nazione di diecine milioni di cittadini a ridosso dei suoi confini, quando infine l’Inghilterra si accomodò alla creazione di un’Italia unita, arrivò anche a favorirla, ma solo perché l’estensione costiera del nuovo Regno l’avrebbe posta sotto il perenne ricatto della sua flotta.
Si è oggi tanto modificata questa situazione? Forse no, dato che, se anche nessuna minaccia esterna insidia l’Italia, se per essa è ormai tramontato il periodo della sovranità limitata vissuto durante il lungo periodo della guerra fredda, ora, in cambio, il nostro status di media potenza viene messo in discussione quotidianamente dai partners europei. Sicuramente no, se, come ha sostenuto Christopher Caldwell, uno dei più autorevoli editorialisti del Financial Times, (L’ultima rivoluzione d’Europa. L’immigrazione, l’Islam e l’Occidente, Garzanti, 2009), il Vecchio Continente in quest’ultimo decennio è divenuto una società multietnica, senza alcuna programmazione, senza alcun progetto, senza una guida politica, se, in alcuni dei suoi Stati, gli immigrati sono più del 10% della popolazione complessiva, se, su 375 milioni di europei, ben 40 milioni vivono fuori dal loro paese d’origine, se la maggior parte dei nuovi venuti hanno culture e tradizioni difficilmente assimilabili alle nostre e fortemente resistenti ad ogni politica d’integrazione. Cosa succederà allora degli «indigeni» francesi, italiani, tedeschi, con il loro basso tasso di natalità e con il loro inarrestabile invecchiamento demografico? E in particolare, quale potrà essere il nostro rapporto con una minoranza di 20 milioni di persone, fortemente coesa, come quella musulmana, se non si tiene bene ferma l’identità di un’Europa delle Nazioni?
Di fronte a questa inquietante prospettiva, un grande intellettuale francese, come Tzvetan Todorov (La peur des barbares. Au-delà du choc des civilisation, Laffont, 2008), ci ammonisce, in controtendenza alla previsione di un imminente e inarrestabile Clash of Civilizations postulata da Samuel Huntington nel 1993, a rifiutare la paura del diverso, a non identificare con una viziosa analogia l’odierna, massiccia ondata migratoria alla calata di nuovi barbari, assumendo come punto di riferimento mentale l’apocalittico ricordo della caduta dell’Impero romano. Eppure, nel suo generoso invito, Todorov, dimentica di ricordare che la fine di quell’organizzazione politica secolare ebbe soltanto come causa occasionale l’invasione dei barbari esterni. Quel Decline and Fall, per dirla con Gibbon, fu piuttosto determinato, secondo la lettura di Michail Rostovzev (Storia sociale ed economica dell’Impero Romano, Sansoni, 2003) dalla trasmigrazione coatta o volontaria dei cosiddetti barbari interni e cioè dalla lenta, progressiva penetrazione di forza lavoro schiavile o semi-servile che, insediatasi all’interno del limes occidentale, sconvolse e poi distrusse le strutture economiche, finanziarie, militari, culturali del mondo antico.
(Pubblicato il 16 gennaio 2010 – © «il Giornale»)