di Eugenio Di Rienzo
Il nuovo volume di Paolo Mieli, Ferite ancora aperte. Guerre, aggressioni e congiure, edito da Rizzoli, ci offre un’appassionante cavalcata storiografica (preceduta da un denso e informatissimo saggio dedicato all’Ucraina, dall’inizio dell’ultimo anni della Grande Guerra all’”operazione militare” scatenata dal Cremlino il 22 febbraio del 2002), che visita e rivisita eventi del passato remoto, prossimo, recentissimo. Per dirci che “le lacerazioni mai rimarginate e i traumi del passato”, che il lavoro storiografico ha tentato di razionalizzare, mettere in forma, sterilizzare, e che le istituzioni politiche hanno cercato maldestramente di rimuovere, sono destinate a riemergere dal fiume carsico della memoria per pesare come un incubo sul nostro presente.
Se ho ben compreso il pensiero di Mieli mi sembra che egli reputi che queste ferite debbano restare aperte, visibili allo sguardo dello storico e del politico invece di restare nascoste sotto spessi bendaggi nel tentativo di sanarle con pomate miracolose. Perché se, come recita un antico proverbio, “Medico pietoso fa piaghe purulente”, l’esposizione di quelle piaghe alla luce del sole, certo dolorosa per il paziente, può consentirci di cicatrizzarle, forse, una volta per sempre, o almeno di seguirne il decorso per evitare il riaccendersi del male.
Questo è invece ciò che rischia di non accadere da quando il governo francese decise di regolamentare il ricordo del passato attraverso le cosiddette «leggi della memoria», arrogando a sé stesso e al potere giudiziario la pretesa di fare della storia una sorta di vigilato speciale. Dopo il varo della normativa Gayssot fece seguito, infatti, l’approvazione, nel 2001, di altre due disposizioni legislative, che punivano, come reato perseguibile per legge, ogni narrazione che troppo insistesse sul bagno di sangue delle due guerre mondiali, con il loro seguito, di odi e persecuzioni etniche, perché lesiva di quella unità politica europea che si era finalmente edificata.
A questo apparato legislativo si aggiunse poi, una nuova normativa, varata nel febbraio 2005, che prescriveva di inserire nell’insegnamento della storia un giudizio sul «ruolo positivo della presenza francese nelle ex-colonie, soprattutto del Nord-Africa». E con questa disposizione, inaugurata con raro tempismo proprio alla vigilia della grande rivolta dei giovani emigrati magrebini, tutti di seconda generazione, esplosa nelle periferie di Parigi, l’improntitudine del «politicamente corretto» toccò il suo culmine e i provvedimenti approvati da parlamentari magari di «buona volontà», ma sicuramente di scarso senno, dimostrarono di aver rappezzato il passato con una toppa davvero peggiore del buco.
Da tutto questo proliferare di buone intenzioni, di cui è sempre lastricata la via dell’inferno, la principale vittima è stata però la Storia, ormai prigioniera dei lacci e laccioli tessuti da un potere politico, che ha veramente oltrepassato il giusto limite nel quale deve restare racchiusa la sua azione. Ed è toccato agli storici francesi difendere con fermezza l’autonomia della loro professione, con un pubblico appello, che richiedeva l’abrogazione di ogni intervento legislativo sulla memoria, al quale ha fatto seguito il volume di René Rémond (Quand l’Etat se mêle de l’histoire, Stock, 2006), che si concludeva con un durissimo attacco contro il regime di «censura strisciante» inaugurato dalla Quinta Repubblica, che pare voglia obbligare gli analisti del passato a scegliere i loro oggetti di studio in ragione della loro irrilevanza da un punto di vista penale.
Il problema, intendiamoci bene, non è soltanto francese. Anche in Italia, si agita il desiderio di arrivare ad un imbrigliamento ministeriale del mestiere di storico, se si pensa che uno noto studioso del nostro Paese ha emesso un vero e proprio Sillabo, al quale l’analista del passato dovrebbe sottomettersi, scegliendo come esclusivi soggetti di studio «i movimenti politici e sociali che espressero repulsione verso la guerra, lo sforzo fatto per far avanzare le prossime generazioni, per tutelare il rispetto delle identità e delle differenze e per estinguere il serpente velenoso dei nuovi e vecchi e nazionalismi». Insomma, una storia tinteggiata dai tenui colori di un acquarello ottocentesco e non la pittura dolente, impastata di sangue, fango e feci, dei dipinti di Francisco Goya, di George Grosz, di Pablo Picasso che sono specchio degli abissi in cui può sprofondare la condizione umana.
Quella che sempre più insistentemente ci viene proposta è una ricetta impastata di buoni sentimenti, persino banali nella loro ovvietà, eppure pericolosa, perché destinata a favorire un disciplinamento forzoso dell’attività storiografica. Una ricetta, poi, neppure originale, che ricorda da vicino quella formulata per la prima volta, a Oslo, nel lontano 1928, con il progetto, espresso all’interno del Comitato Internazionale di Scienze Storiche, di attuare una revisione dei manuali di storia, per purgarli dai più scoperti riferimenti di carattere sciovinistico, che si pensava avessero direttamente e indirettamente provocato la grande strage del primo conflitto mondiale.
A quella proposta, formulata dal delegato francese Michel Lhéritier, si oppose, Gioacchino Volpe, designato a rappresentare l’Italia in quel consesso. Al suo ritorno, Volpe, inviava al Presidente della Camera dei Deputati, un articolato rapporto su quanto accaduto nella capitale norvegese, nel quale si sosteneva che il programma di Lhéritier era inaccettabile, non tanto per i suoi contenuti quanto per il suo carattere dirigistico e verticistico, che avrebbe provocato una stagnazione della ricerca in un labirinto delle legittimità, fatto di veti incrociati, costellato da divieti di accesso e di sensi vietati, che rischiavano di rendere il lavoro dello storico non solo “difficile, come è sempre stato, ma addirittura impraticabile nella sua pienezza”.
Come, infatti, ricordava Marc Bloch “Il buon storico somiglia all’orco della fiaba, là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda”. E per questo non può ridursi a considerare le invasioni barbariche o le incursioni barbaresche che trasformarono il Mediterraneo in un mare di sangue, alla stregua di semplici “gite turistiche”, sostenere che i popoli europei in fondo furono sempre popoli fratelli, anche quando si scannavano reciprocamente, insinuare che nonostante tutto Russi, Turchi, Persiani intrattennero nei secoli rapporti di buon vicinato, suggerire che l’Impero britannico in India rappresentò un modello di governo benevolo e paterno, generosamente indaffarato a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni a lui soggette. Lo storico, lo storico vero, che è cosa diversa dal “professore di storia”, fedele alla sua deontologia deve, invece, mettere il dito sulle piaghe del passato che altrimenti sarà destinato a non passare, a ripetersi in un eterno ritorno con tutti i suoi orrori e tutti i suoi errori come proprio la guerra russo-ucraina giorno dopo giorno ci sta dimostrando,
Questa, mi pare, è la lezione di storia che Mieli ha voluto impartirci nel suo ultimo lavoro. Una lezione che mi fa tornare alle mente quanto Pierre Nora scrisse in un’intervista concessa nel 2006, quasi a preludio del volume, Liberté pour l’histoire, scritto a quattro mani, insieme a Françoise Chandernagor, e pubblicato due anni dopo, per le edizioni del CNRS.
Memoria e storia non sono affatto sinonimi, tutto le oppone. La memoria è sempre in evoluzione, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni; la storia è la ricostruzione, sempre problematica e incompleta, di ciò che non c’è più. Carica di sentimenti e di magia, la memoria si nutre di ricordi sfumati; la storia, in quanto operazione intellettuale e laicizzante, richiede analisi e discorso critico. La memoria colloca il ricordo nell’ambito del sacro, la storia lo stana e lo rende prosaico. Al contrario, oggi, quando l’anniversario della battaglia di Austerlitz trascorre in un imbarazzato silenzio ufficiale, la memoria invade continuamente il campo della politica, e della storia e gli storici sono sottoposti al dispotismo della memoria, lo stesso che imperversava nei Paesi del blocco comunista prima della caduta dell’Urss, che domina il mondo contemporaneo, tanto da provocare, in Francia, l’approvazione continua di norme che ormai costituiscono un gigantesco e opprimente apparato legislativo. Eppure non spetta, certo, al giudice o al legislatore, né tantomeno al politico emanare direttive su come si scrive la storia e perseguire penalmente chi a queste direttive è parso aver disobbedito. Né di seppellire la memoria nel cimitero sconsacrato di un oblio forzato per poi vedere rinascere oggi le tragedie che credevamo chiuse a doppia mandata nel carcere del passato.
(Pubblicato il 4 ottobre 2022 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)