di Eugenio Di Rienzo
Subito dopo l’unificazione della Penisola nel 1861 molti ambienti politici britannici prima favorevoli a Casa Savoia furono percorsi da seri dubbi sull’opportunità dell’appoggio dato a Torino. Nei dibattiti parlamentari dei Pari londinesi emergono tutti i pentimenti della classe politica inglese assieme alle debolezze del nuovo Stato unitario italiano e alle atrocità commesse nella repressione dei moti insurrezionali lealisti nel Mezzogiorno. Come racconta un nuovo saggio di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, (Rubbettino, pp. 229, € 14,00) di cui «Storia in Rete» propone questo brano per gentile concessione dell’Editore del volume.
Il 17 marzo 1861, con la Proclamazione del Regno d’Italia, «una storia finiva e un’altra ne cominciava» per il Mezzogiorno, ma anche per l’intera Penisola il cui assetto unitario apparve immediatamente, a tutti i governi europei, precario, proprio per le sue caratteristiche genetiche, ritenute da molti come illegittime e non corrispondenti alla reale volontà della maggioranza degli Italiani. Molto indicativo a questo riguardo sarebbe stato il grande dibattito sviluppatosi nel Parlamento britannico sugli «affairs of Naples», durante il quale era intervenuto Pope Hennessy con il già ricordato speech del 4 marzo 1861. Nel suo intervento il deputato conservatore faceva osservare che, dopo l’avvento del primo ministero Palmerston, nel 1855, Lord Clarendon aveva «without the smallest pretext, dragged the Papal Government and the Administration of the King of Naples, before the Paris Congress, and invited Italian subjects to revolt». Il solo fine di quest’offensiva diplomatica era stato quello di preparare la strada alla conquista piemontese della Penisola ispirata dai pochi nobili motivi di risolvere la grave crisi finanziaria che attanagliava il Regno di Vittorio Emanuele con l’acquisizione delle risorse degli altri Stati italiani che si trovavano tutti in una più florida situazione economica.
L’ultimo atto di questa strategia di aperto favoreggiamento alle mire espansionistiche dei Savoia era avvenuto nel 1860, quando la flotta britannica, dopo aver permesso l’approdo dei Mille in Sicilia, aveva tacitamente protetto i convogli che dalla Liguria trasportavano rinforzi dei «foreign buccaneers» (molti italiani ma anche più di 2000 tra inglesi e ungheresi, insieme a centinaia di svizzeri, francesi, belgi, polacchi, russi), destinati a ingrossare le bande degli insorti. I corpi franchi garibaldini avevano potuto contare, infatti, solo in minima parte sull’afflusso di volontari regnicoli, anche nel momento del loro massimo incremento numerico, poiché, come appariva evidente dalle stesse comunicazioni del generale Cialdini, inviate a Torino subito dopo l’ingresso delle sue truppe nel territorio delle Due Sicilie, «while the King of Naples had formed volunteer corps among his people, and while less than 100 had joined Garibaldi, thousands had been found ready to fight for King Francis».
Proprio il lealismo dimostrato dai reparti borbonici e dalla popolazione civile, in gran parte restate fedeli alla vecchia dinastia, aveva scatenato, continuava Pope Hennessy, la furiosa repressione dell’armata sarda che si era macchiata di crimini contro l’umanità ben più efferati di quelli che l’opinione pubblica europea aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede. In seguito l’Europa aveva assistito esterrefatta allo scandalo dell’annessione giustificata dalla beffa del Plebiscito, alla cui correttezza il ministero Palmerston aveva fatto finta di credere con grande ipocrisia, sebbene la maggioranza dei «loyal inhabitants of South Italy took no part in the vote». E da tutto questo, infine, era nato il cosiddetto fenomeno del «brigantaggio politico», che non poteva definirsi, come proprio quest’ambigua espressione dimostrava, un episodio di criminalità comune ma che invece rappresentava un vasto e capillare movimento di resistenza contro l’invasione straniera dove militavano, insieme a nuclei di veri e propri fuorilegge, interi reparti del disciolto esercito borbonico, gruppi provenienti dall’opposizione liberale napoletana e persino numerosi garibaldini delusi.
Il «legno storto», dal quale si era voluto ricavare con la violenza, la frode e l’inganno, il Regno d’Italia, ammoniva poi, il 19 luglio, il parlamentare whigh, John Alexander Kinglake, rischiava di trasformarsi in un materiale facilmente combustibile che avrebbe finito per compromettere il già precario equilibrio del Continente e la stessa sicurezza del Regno Unito. Ancora molto debole sul piano militare, diviso da conflitti politici e sociali al suo interno, prostrato economicamente da una guerra triennale e ora dalla lotta contro l’insurrezione del Sud, che aveva assunto le fattezze di una vera e propria «civil war», il nuovo organismo politico non avrebbe potuto rinunciare, in caso di un probabile scontro con l’Austria, al soccorso francese, acquistandolo, forse, con la cessione della Sardegna al Secondo Impero. Se questo fosse avvenuto, concludeva Kinglake, la Gran Bretagna avrebbe perduto la sua tradizionale posizione di vantaggio strategico nel Mediterraneo non potendo le basi di Corfù e di Malta competere, per importanza, con i porti di Cagliari, Nuoro, Oristano e Sassari.
Le stesse preoccupazioni sulla capacità del giovane Stato a rappresentare per Londra un interlocutore affidabile, vista la frattura quasi antropologica che aveva spaccato in due la Penisola, erano ancora vive nella primavera del 1863. Nella seduta dell’8 maggio, George Cavendish-Bentinck sosteneva che, nonostante la proclamazione dello stato d’assedio nelle province meridionali dell’estate del 1862 e la sospensione di molte delle principali garanzie dello Statuto albertino, l’insorgenza filo-borbonica si era estesa dalla Capitanata ai confini del Lazio. L’incendio del Sud doveva, quindi, far comprendere all’attuale esecutivo quale grave errore fosse stato tollerare e incoraggiare «the gross infractions of the Law of nations», contando sul fatto che «the policy of Count Cavour was a panacea for all political disorders, and that peace and contentment were the necessary consequences of its success».
Nel dibattito era nuovamente intervenuto Pope Hennessy, per dichiarare, a brutto muso, che il Regno Unito appoggiando l’unificazione italiana non solo si era impegnato in un dirty affair ma aveva anche commesso un gigantesco errore politico, acquistando un malcerto alleato e perdendo, allo stesso tempo, un importante partner commerciale. I dati forniti dal Board of Trade Return contraddicevano, infatti, i rassicuranti rapporti inviati dal Console a Napoli, Edward Bonham, annunciando un secco decremento dell’importazioni e delle esportazioni tra Inghilterra e Mezzogiorno che si erano praticamente dimezzate dal 1861 al 1862, a causa della rarefazione dei capitali circolanti taglieggiati dall’incremento della pressione fiscale e dalla repentina flessione della produzione agricola e industriale. Questa crisi strutturale era stata determinata soprattutto dalla rivolta dei political banditi e dalla spietata contro-guerriglia delle forze di occupazione. Sotto la guida di Cialdini, Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna, Ferdinando Pinelli, le truppe del «Re galantuomo», nel tentativo di fare terra bruciata attorno ai focolai di resistenza, avevano deliberatamente provocato devastazioni nelle campagne, abbandono delle colture, danni irreparabili alla pastorizia, colpita dal moltiplicarsi dei fenomeni di abigeato e dalle misure di ordine pubblico del marzo 1863 che proibivano la transumanza. Né erano mancati episodi di ritorsione terroristica da parte dei «Piemontesi» che avevano smantellato alcuni impianti industriali, i cui macchinari erano stati requisiti e trasportati nel Settentrione.
Tanto disastro, incalzava uno dei più stretti collaboratori di Disraeli (Lord Henry Lennox), in quella stessa seduta, era stato il guadagno che la Gran Bretagna aveva procurato al Sud della Penisola, favorendo la sostituzione del «despotism of a Bourbon» con lo «pseudo-liberalism of a Victor Emmanuel». Se nessuno poteva negare che «what is called united Italy mainly owes its existence to the protection and moral support of England more does it owe to this than to Garibaldi or even to the victorious armies of France», non era, d’altra parte, ammissibile contestare che, in questo modo, il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un’impresa illegittima e scellerata che aveva portato all’instaurazione di un vero e proprio «Reign of Terror».
Come chiamare, se non con questo nome, l’ondata d’indiscriminata epurazione contro il personale amministrativo borbonico di ogni ordine e grado, restato fedele ai Borboni? Come altro poteva essere definito il «system of arbitrary arrests», che il governo italiano aveva esteso all’Abruzzo, alla Campania, al Molise, alla Basilicata, alla Puglia, nello stesso momento in cui i suoi ministri negavano l’esistenza di avversari politici («Bourbonists, Muratists, Republicans») intenzionati a mettere in discussione «the United Italy under Victor Emmanuel»? Quale diverso termine usare per qualificare un’inquisizione poliziesca che nel cuore della notte violava il domicilio di centinaia di cittadini sospetti e li trascinava in ergastoli talmente luridi, da non poter essere utilizzati in Inghilterra neanche come stalle, dove quegli sventurati erano dimenticati per mesi senza essere né interrogati né processati? Di quali altre parole, infine, un cittadino britannico avrebbe dovuto servirsi per condannare l’«active surveillance» e l’«energetic and constant repression of newspapers» delle quali si erano serviti gli agenti di Vittorio Emanuele per censurare intere pagine delle gazzette non allineate con il nuovo corso politico, per sospendere o chiudere definitivamente molti organi di stampa, per perseguitare i loro redattori con multe e minacce d’arresto? Eppure, la lobby filo-italiana presente nel Parlamento, terminava Lennox, si ostinava a non prestare fede a queste denunce, insisteva a considerarle come semplici calunnie ed era arrivata al punto di tacciare come «a sympathizer with the brigands, or an enemy to the unity of Italy», lo stesso Cancelliere dello Scacchiere, Lord Gladstone, che aveva «eloquently lamented in his Budget speech, the present condition of Italian finance».
Per rintuzzare l’attacco di Lennox scendeva in campo uno dei più brillanti oratori della maggioranza, Henry Butler-Johnstone. Il deputato, pur non negando i fatti riferiti dagli esponenti dell’opposizione e da alcuni membri del partito di governo e anzi rammaricandosi, personalmente, dell’istituzione di Tribunali militari per la punizione dei delitti politici, giustificava lo stato d’eccezione al quale era stata sottoposta la quasi metà del Regno d’Italia con le difficili circostanze in cui i ministeri, guidati da Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Luigi Carlo Farini, Marco Minghetti, si erano trovati a operare. Certo ci si poteva dolere che l’attuale sistema carcerario non fosse sostanzialmente diverso di quello in vigore sotto «King Bomba» e il suo successore. Ovviamente si doveva biasimare che «a Government which stands up for the liberty of the subjects, and has adopted the noble word “freedom” for its motto, should have taken a weapon from the armoury of despotic régime». Non era possibile, tuttavia, condannare uno Stato che, sconvolto da gravissimi disordini, aveva adottato gli stessi brutali mezzi di repressione utilizzati anche dall’Inghilterra «in times of public disturbance and agitation», quando i suoi governi furono costretti a sospendere «our ordinary safeguards and hold them in abeyance», per proteggere le libertà del popolo britannico.
Nel Mezzogiorno, infatti, l’Italia non doveva solo far fronte con tutti i mezzi a sua disposizione ai pericoli per la sua stabilità interna costituiti dal brigantaggio, che Francesco II, esiliato a Roma e appoggiato dalla Corte pontificia, aveva organizzato e continuava a sostenere con larghi finanziamenti. Insieme alla piaga costituita da questa forma di banditismo agrario, che si tingeva ora di motivazioni politiche, il governo di Vittorio Emanuele era impegnato in una lotta a coltello per estirpare il secolare cancro della «society called the Camorra, which exercises such terror over the public mind» da costringere il popolo napoletano a proteggerne gli accoliti con l’omertà piuttosto di rischiare di essere esposto alle loro vendette. Questo male antico, aggiungeva Butler-Johnstone, era proliferato con maggior vigore grazie alla protezione di Ferdinando II, quando l’organizzazione malavitosa, ramificatasi nell’amministrazione, nella giustizia, nell’esercito, nella massoneria, aveva sottoscritto un pactum sceleris con la gendarmeria borbonica, collaborando con essa nella repressione dei piccoli reati, in cambio di una larga tolleranza nei suoi confronti. La Camorra, infatti, formava una specie di «polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che si occupava solo dei delitti politici». Inoltre, la Camorra era utilizzata nella «sorveglianza delle prigioni, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati della città». «Assassinava per proprio conto» ma interveniva per sedare le risse ed evitare regolamenti di conti, con la sua giustizia privata, garantendo la sicurezza dei quartieri popolari.
Nel suo intervento Butler-Johnstone, dimenticava, però di ricordare, come altre testimonianze attestavano, invece, che l’intesa cordiale tra quella che amava definirsi la «Bella Società Riformata» e il sovrano delle Due Sicilie s’interruppe dopo il 1849, quando questi decise di avviare una sistematica opera di repressione contro i camorristi. Da quel momento, la setta si trasformò in «Camorra liberale» e si pose al servizio del movimento costituzionale, proteggendone le riunioni clandestine, assicurando l’assistenza ai detenuti politici e facilitando la loro fuga dalle prigioni. Il passaggio di campo di una forza potentemente insediata nel tessuto della capitale, certo più temibile delle risibili attività cospirative dei gruppi liberali, non mancò d’impensierire Francesco II, che fu a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire all’ambasciatore austriaco, Martini, il 7 novembre 1859, che molti degli sforzi del suo governo erano in quel momento concentrati a impedire che i suoi capi organizzassero una massa di manovra per attuare un’insurrezione.
(Pubblicato a maggio 2012 – © «Storia in Rete»)