di Cesare Maffi
Se Benedetto Croce incarnò nell’intero ventennio l’antifascismo, nel medesimo periodo Gioacchino Volpe rappresentò l’apice della storiografia. Come Croce aveva sostenuto l’arrivo del fascismo, ancora mesi dopo il delitto Matteotti, così Volpe era passato da un periodo nazional-liberale a una fase più meramente nazionale. Croce si rivelò intollerante verso questo supposto tradimento. Si apprendono istruttive vicende personali, culturali e politiche dallo specifico volume che la Società editrice Dante Alighieri affida alla cura di Eugenio Di Rienzo, raccogliendo le lettere di Volpe a Croce col titolo La storia ci unisce e la realtà politica ci divide, un poco.
In verità la divisione fu pesante, per volere di Croce. Lo storico era stato chiamato a collaborare alla rivista di Croce (e di Giovanni Gentile), La Critica, soddisfacendolo in toto. La collaborazione proseguì con piena soddisfazione di entrambi sino agli anni venti avanzati, quando Croce ruppe il rapporto. Come fu nei confronti di Gentile, il filosofo non mancò di assumere un atteggiamento perfino velenoso, non dimentico di trascorsi rapporti che sarebbe stato impossibile negare, bensì riversando sull’interlocutore la responsabilità del cambiamento.
Com’è comprensibile, Croce si guardò bene dal rammentare i propri anni di sostenitore, sia pur liberale, del fascismo, che ne avevano fatto «un fascista senza la camicia nera». Preferiva attribuire all’altra parte ogni responsabilità. In tal modo distingueva «da una parte, il Volpe liberale e sia pur nazional-liberale, studioso di punta della nuova storiografia italiana; dall’altra, il Volpe fascista, considerato poco meno che un vecchio residuo della storiografia economico-giuridica, peggiorata dagli storici tedeschi dello Stato potenza». Curiosamente, per suggerimento del filosofo l’amico editore Laterza pubblicò alcuni testi proprio dovuti a questi sostenitori dello Stato potenza.
Croce, acido e spietato nel linguaggio oltre che nel sentimento, si lamentò del «medesimo Prof. Volpe che, in un tempo ancora lontano, ebbe questa rivista contributore di saggi storici, allora, secondo il tempo, notevoli e pregevoli e ricchi di speranza». Finse di chiedersi «come mai si sia avuto il disgregamento di cervello, e persino di eloquio, che da parecchi anni si avverte nel suo stracco lavorare e che si mostra aperto, e direi senza ritegno». Volpe, più riservatamente e senza sproloquiare secondo il costume proprio di Croce, chiarì come egli cercasse «di metter in luce il processo di formazione della Nazione italiana, la consapevolezza che essa acquista di sé, la progredente unità nell’ordine costituzionale ecc.». Fu proprio questa l’opera ricca, pregiata, acuta che motivò lo storico a cercare e documentare la nascita degli italiani già al volgere del secondo millennio, identificando perfino i comuni nei quali la società s’innervò.
Volpe si rivolse al già amico filosofo chiedendogli di collaborare all’Enciclopedia Italiana, che per Croce aveva l’intollerabile difetto della direzione gentiliana. Lamentò con estremo raziocinio: «è lecito che i migliori se ne stiano da parte? Fra qualche anno, scomparsa o attenuata quella tensione di spirito che ora divide molti che potrebbero e dovrebbero camminare uniti, voi stessi sareste dolenti di aver negato la collaborazione ad un’opera così fatta». Esattamente capitò in questa maniera quando l’impresa di Gentile rivelò l’incomparabile serietà, serenità, pluralità di presenze.
Croce era un intollerante, come rivelò il suo stesso comportamento nei riguardi dello storico. Agì da fazioso, con atteggiamenti perfino sprezzanti, di contro alle meditazioni concrete e corrette di Volpe: «Lascio stare la politica vostra, della quale voi assumete la responsabilità: la politica non mi vieta di serbare affettuosi rapporti con amici che seguono in buona fede un ideale assai diverso dal mio».
Soltanto in un’occasione rivelò altro animo, quando si riferì alla storia del ventennio mussoliniano così rilevando: «Se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei giustizia aperta a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili».
In margine al passo di questa conferenza, Volpe annotò: “Che altro è fare la storia?”. Aveva ragione.
(Pubblicato l’11 febbraio 2022 © «Italia Oggi» – News)