di Aurelio Musi
I lettori del volume di Eugenio Di Rienzo, Benedetto Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino Editore) potranno disporre, finalmente, per la prima volta di una ricostruzione chiara, convincente e priva di schematismi dei rapporti fra Croce e il Fascismo. Attraverso l’uso di fonti diverse – i taccuini del filosofo, la stampa, le testimonianze, i documenti del regime – Di Rienzo storicizza e problematizza le posizioni del filosofo. L’idea del Fascismo considerato da Croce una parentesi, come l’invasione dei barbari, sospensione transitoria del sistema liberale costruito dopo l’Unità, semplifica troppo, per l’autore del saggio, la ben più complessa biografia politica di Croce.
In una prima fase, dal 1922 al 1924, Croce considera il Fascismo una dittatura provvisoria, il passaggio ad un più severo regime liberale, in opposizione all’idea del Fascismo “rivelazione” delle storiche deficienze italiane, prospettata da Giustino Fortunato. È per questa ragione che il filosofo vota la fiducia al gabinetto Mussolini dopo il delitto Matteotti. Si tratta di un voto prudente, dettato da carità di patria. È solo dopo la promulgazione delle leggi eccezionali nel 1925 che la comprensione della natura del Fascismo-regime diventa più chiara. Croce rompe con Gentile, teorico dello Stato etico, ma mostra ancora tracce di doppiezza. Vede un assalto concentrico al liberalismo da parte di “rossi” e “neri” e non nasconde di ritenere ancora positiva una provvisoria dittatura di salute pubblica. Con acutezza Di Rienzo identifica nel filosofo una scissione fra la cultura, la filosofia, ispirate ai valori della libertà, e la crudezza dell’agire politico, fondato sui rapporti di forza.
La terza fase è quella dell’oppositore del regime. Essa coincide, tra anni Venti e Trenta, con l’elaborazione e la pubblicazione delle principali opere storiche di Croce e la concezione della libertà come principio della vita morale e civile. Negli anni ’30 la filiera dell’antifascismo crociano va oltre l’Italia, coinvolge grandi intellettuali europei come il filologo Leo Spitzer, il sociologo Max Weber, lo scienziato Albert Einstein. La definizione di “antifascismo conservatore” a proposito di Croce è appropriata, ma va anche ricordato che esso, proprio con quella fisionomia, fu capace di svolgere un ruolo decisivo nell’opposizione internazionale e di aggregare orientamenti e ispirazioni. Di Rienzo dimostra anche che fin dal 1934 Croce criticò la persecuzione degli ebrei e l’antisemitismo nelle sue diverse espressioni, pur invitando le minoranze ebraiche ad uscire dal ghetto e a riconoscersi meglio come una delle radici della civiltà occidentale. Ancor più decisa fu la sua opposizione alle leggi razziali del 1938.
Ma allora, si domanda l’autore, perché Croce, anche dopo il 1945, “premette con tanta insistenza per avvalorare la tesi del Fascismo come fase accidentale e contingente della vita italiana?”. La risposta multipla costituisce forse la parte più innovativa del saggio. In primo luogo a prevalere in Croce è il sentimento di patria. L’idea di volgere le spalle all’Italia gli ripugna persino dopo il 10 giugno 1940. Ma poi la difesa della nazione s’impone soprattutto dopo la sconfitta della guerra. L’Italia è potenza perdente che si avvia a diventare protettorato di angloamericani e Urss. È il viale del tramonto della patria non più nazione sovrana. È allora necessario difendere di fronte ai vincitori la lunga e gloriosa storia della civiltà italiana umiliata da Mussolini e dal Fascismo. In secondo luogo è necessario preservare i valori e le conquiste liberali non solo dal “fascismo nero”, ma anche dal “fascismo rosso”, cioè dai rischi di una possibile dittatura comunista.
Fu solo una “pia frode”, dunque, come sostiene Di Rienzo, la visione del fascismo parentesi o non, piuttosto, il tentativo da parte di Croce di risolvere le profonde lacerazioni che il ventennio aveva provocato? Il dibattito storiografico è ancora aperto.
(Pubblicato il 1 febbraio 2021 © «La Repubblica»)