di Luigi Morrone
Rubbettino Editore inaugurerà giovedì prossimo, 20 giugno, la nuova collana “Diritto/rovescio” con un’opera del direttore della stessa, Eugenio Di Rienzo (Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948) che anticipa un più ampio lavoro sempre di Di Rienzo in cui si analizzerà l’intera vita politica dell’intellettuale napoletano.
Nel volume, l’autore affronta un periodo tormentato della vita del filosofo di Pescasseroli, così cimentandosi con una nuova biografia, a breve distanza da quella dedicata al “genero di regime” Galeazzo Ciano.
Fu lo stesso Croce a mettere in guardia i biografi: a scrivere una biografia, bisogna stare attenti a due pericoli: concentrarsi troppo sul personaggio, trascurando gli eventi storici in cui si muove, o porre attenzione a questi ultimi, lasciando in ombra il personaggio.
Come nelle precedenti biografie, Di Rienzo (che aveva già pubblicato un’anticipazione di questo libro nella raccolta di studi dedicata alla memoria di Giuseppe Galasso), riesce a rifuggire da tali insidie, trovando la strada per occuparsi del personaggio, ricostruendo il pensiero e l’azione politica di Croce, e contemporaneamente analizzando a fondo gli eventi storici del periodo esaminato. Eventi che vanno dal 25 luglio del 1943 fino alle elezioni politiche del 1948.
Il libro, parafrasando Vico è una ricerca “alla discoverta del vero Croce”, a dispetto delle mistificazioni della sua figura, che ne hanno fatto una sorta di mosaico buono per tutte le stagioni, nel non celato tentativo di farne un “padre nobile” delle “élites autonominatesi progressiste”.
Dopo il “cambio della marea” a fine 1942 nelle vicende della Seconda guerra mondiale, le città italiane furono fatte segno dei “bombardamenti selettivi” degli Alleati. Per sfuggire ad essi, Croce, da una Napoli particolarmente colpita dalle bombe, si rifugiò a Villa Tritone, presso Sorrento. Qui, dopo il colpo di Stato del 25 luglio 1943 e, soprattutto, dopo l’armistizio reso noto l’8 settembre 1943, intorno a Croce si coagulò un cenacolo che intraprese una sorta di “diplomazia parallela”, alternativa rispetto al governo ufficiale di Brindisi.
Croce, infatti, pur restando intimamente legato all’istituzione monarchica, provava una profonda disistima per il sovrano e per l’erede al trono, per le loro compromissioni con il fascismo (Vittorio Emanuele III aveva promulgato sia le “leggi fascistissime” del 1925, sia le leggi razziali del 1938), e parallelamente non riteneva che la ricostruzione dell’Italia postfascista potesse passare da un altro elemento fortemente compromesso con il regime come il “duca di Addis Abeba” Pietro Badoglio.
La mira di Croce, sul punto, era di rinviare la “resa dei conti” sulla questione istituzionale (che non poteva comunque prescindere dalla liquidazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto) ad un momento in cui fosse possibile disgiungere l’istituzione monarchica dal fascismo, sperando di poter ripetere ciò che si era verificato in Inghilterra con l’abdicazione di Giacomo II Stuart.
Nel frattempo, Croce sperava che la cobelligeranza con le Nazioni Unite potesse in qualche modo mitigare le durissime imposizioni della resa di Cassibile, ma ciò si scontrava con il disegno di Churchill (lucidamente riferito a Croce dal vecchio Vittorio Emanuele Orlando): ridurre l’Italia ad un Paese a sovranità limitata, soprattutto evirandola da ogni possibilità di manovra sul Mar Mediterraneo, il “Mare Nostrum” romano che dalla disfatta napoleonica in poi Londra avevano preteso di ridurre a “Mare Clausum” britannico (nell’ambito di questo disegno egemonico è da vedere anche l’intervento forse decisivo del Regno Unito nel provocare il crollo del Regno delle Due Sicilie nel 1860).
Nella politica interna, Croce tentava di far (ri)nascere il sentimento liberale, che aveva visto conculcato dal ventennio e che vedeva in chiara difficoltà nel postfascismo. Soprattutto, vedeva l’ineluttabilità della nascita di un forte polo cattolico, ma dall’altra parte vedeva che la contrapposizione all’azione dei cattolici in politica non avrebbe avuto come baricentro i liberali, ma le forze socialcomuniste, per cui attaccava duramente il Partito d’Azione, ai cui rappresentanti era legato da amicizia personale, giacché scorgeva in quell’esperienza come una sorta di ircocervo dell’idea liberale, stanti le sue derive socialisteggianti, ricordando che proprio in mezzo alle degenerazioni del socialismo era stato possibile l’humus che aveva dato origine al fascismo.
Ma d’altra parte, Croce aveva premonito lo scenario già durante la guerra, quando, pur essendo stato fin dall’inizio contro la “guerra fascista”, non auspicava una sconfitta italiana, temendo il vecchio disegno britannico di negare qualsiasi spazio di manovra agl’italiani nel Mediterraneo. E furono, infatti, gl’inglesi ad imporre la scelta della “luogotenenza” attribuita da Vittorio Emanuele III ad Umberto, realizzando di fatto quella successione cui il cenacolo di Croce si era fortemente opposto, e che ne aveva cagionato l’isolamento nel fronte dell’antifascismo, tanto da subire le accuse di volere l’ingovernabilità.
In realtà, la “svolta di Salerno” dei comunisti, con Togliatti tornato dall’URSS che poneva in secondo piano la questione istituzionale, proclamava l’indipendenza del PCI dal PCUS e si dichiarava disponibile ad un governo di coalizione con le altre forze antifasciste, aveva impensierito il Foreign Office, che aveva spinto per un passo indietro del Re (anche sotto forma di reggenza), al fine di coniugare la netta opposizione del CLN alla permanenza di Vittorio Emanuele III al vertice dello Stato ed il pericolo che, estraniandosi le forze liberali dal governo, i comunisti si accaparrassero i posti migliori.
Sta di fatto che, rimanendo comunque re Vittorio Emanuele III, sia pure solo de iure, era chiara la sconfitta di Croce, De Nicola, così come era chiara la vittoria di Togliatti, che era stato protagonista di un rapido dietro-front, rispetto al momento del suo ritorno dall’URSS, quando aveva chiesto a gran voce l’abdicazione del Re, tuonando contro la soluzione Churchill che successivamente recepì.
Lo scoramento di Croce si evidenziava nei suoi appunti, in cui, analizzando la “doppiezza” del “comunista italiano, giunto dalla Russia”, ne paventava il fine strumentale di esercitare un ruolo egemonico all’interno del fronte antifascista.
Viceversa, nel suo diario, Ivanoe Bonomi, che aveva presieduto la prima riunione del CLN, esulta per il novello “Lohengrin” Palmiro Togliatti e, ritenendo sincera la “svolta di Salerno”, esprime perplessità notevoli sulle reticenze di Croce e dei suoi amici circa il piano di Londra per pilotare la transizione dal fascismo alla democrazia.
In realtà, Croce aveva visto giusto e gli entusiasmi di Bonomi erano ingiustificati: la “svolta di Salerno” era stata in realtà concordata con Mosca, e preceduta dai colloqui tra il Segretario generale agli esteri Renato Prunas ed il diplomatico sovietico Vyšinskij, in cui vennero concordate le condizioni della “svolta”. Condizioni che sarebbero state puntualmente disattese da parte sovietica: nessuna soluzione al problema del rimpatrio dei prigionieri in Russia, nessun miglioramento delle condizioni di pace imposte a Cassibile.
Che la “svolta di Salerno” fosse stata in realtà concordata con Mosca, apparirà chiaro dagli sviluppi successivi: il “cordone ombelicale” tra PCI e PCUS resterà a lungo, con un appiattimento totale sulle posizioni dei “fratelli” sovietici dei comunisti italiani, che si schiereranno con Tito per la questione dei confini orientali dell’Italia, per poi perseguitare i propri iscritti appena sospettati di simpatie per il comunismo iugoslavo dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948.
L’insofferenza di Croce per la piega inferta dagli avvenimenti alla politica della coalizione antifascista risalterà nella corrispondenza del 30 marzo 1946, in cui, a guerra finita, Croce ricordava a Bonomi, Nitti e Orlando di considerare «la parola democratica poco significante, ora che l’adoperano a gara, e persino contro noi liberali, i bolscevichi e i preti».
Sta di fatto che Croce, nel momento della scelta del CLN per una guerra partigiana “separata” dalla cobelligeranza del Regio Esercito con gli Alletati, avanzò il timore che l’egemonia comunista sullo schieramento antifascista potesse portare alle conseguenze che le “lotte di liberazione” sotto l’egida dell’Armata Rossa avevano cagionato nell’Europa dell’Est, onde nei suoi “Taccuini” trapela chiara la preoccupazione di Croce che la guerra partigiana fosse sul punto di trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista».
Le posizioni di Croce attirarono contro di lui gli strali dei fascisti di Salò e dei comunisti. I primi, a denigrare la validità scientifica delle sue proposizioni, i secondi, a tacciare Croce di “collaborazionismo” con il Fascismo, stante il suo permanere nella tranquillità degli studi negli anni del regime.
A guerra finita, Croce notava con raccapriccio l’ondata di violenze che investiva l’Italia, notava che i partigiani comunisti non avevano “staccato la spina” della guerra civile, continuavano i massacri mescolando pretese di “lotta di classe” e regolamenti di conti personali, notava la complicità di prefetti ed amministratori locali “rossi”, notava un uso strumentale dell’epurazione dalla burocrazia fascista, mediante «una massiccia infiltrazione del comunismo nell’apparato statale, contro le garanzie statutarie, contro le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito».
Il timore di Croce per la gestione dell’epurazione raggiunse la sua acme quando, con un colpo di spugna, venne “dimenticata” per tutti la compromissione con il regime, facendo emergere un trasformismo che aveva portato «quei non pochi professori che diventarono corteggiatori e servitori del fascismo a convertirsi in bolscevichi, o, come si chiamano, in marxisti e segnano i loro posti in una possibile rivoluzione, e, se questa non avverrà, niente di male, perché (diranno a loro scusa), a chi vorrà rimproverarli dell’essersi lasciati illudere dal sogno generoso di una redenzione sociale».
Di Rienzo, contraddicendo una “vulgata” ormai sedimentata da più di mezzo secolo, ipotizza un’adesione di Croce alla tesi di Roberto Ducci, allora puledro di razza della diplomazia italiana, secondo cui il fascismo non fu una parentesi, ma un’espressione di un sentimento profondamente radicato nel costume italiano, che aveva trovato innesco in un violento sentimento antiborghese, abilmente cavalcato da Mussolini. Sempre Ducci, respingeva la teoria della “guerra giusta” del “bene contro il male”, e sosteneva che il paradigma era esattamente rovesciato: respingendo la teoria che è la forza a creare il diritto, si era interpretata la vittoria alleata come la vittoria della giustizia.
Apparentemente, infatti, Croce aveva assunto posizioni in contrasto con le tesi di Ducci, ma Di Rienzo esamina accuratamente i taccuini del filosofo abruzzese e non può che trarre una conclusione: per Croce, la “Seconda Guerra Mondiale” era stata «non la “guerra per la libertà”, ma come tutte le altre, per l’indipendenza, per il dominio, per il vantaggio economico e politico, e che la guerra per la libertà si dovrà combattere, poi, e con mezzi più vari e più adatti che non siano le armi». E, sempre secondo Croce, quel “sentimento antiborghese” che, abilmente cavalcato da Mussolini, aveva portato all’affermazione del Fascismo, era in quel momento canalizzato dalle forze socialcomuniste, onde era concreto il pericolo di un nuovo totalitarismo che sostituisse quello fascista.
D’altra parte, che Croce considerasse la Seconda Guerra Mondiale una guerra come tutte le altre, è dimostrato dalla sua opposizione al tentativo di istituire “processi” nei confronti dei “vinti” nella forma del procedimento giudiziario. I processi dei vincitori sui vinti, scrive Croce nei Taccuini, «rivestono carattere non morale né legale di giustizia ma passionale, di sfogo impetuoso e di vendetta».
In conclusione, dal libro di Eugenio Di Rienzo emerge un Croce lontanissimo dalla “appropriazione indebita” di cui è stato oggetto da quarant’anni a questa parte. E appare, invece, un intellettuale che vedeva nel liberalismo e negli Stati nazionali una reciproca legittimazione, onde paventava il timore che il crollo dell’uno potesse cagionare il crollo dell’altro e viceversa. Un intellettuale che individuava nella salute della propria Patria il supremo valore, anche a discapito dei suoi convincimenti personali: «M’importa un bel niente del fascismo; sono italiano e desidero che gli italiani facciano fronte agli inglesi», diceva nel 1941.
Un libro coraggioso, quello di Di Rienzo, che si pone in controtendenza rispetto ad un mainstream aduso a piegare la storia a interessi di parte.