di Giuseppe Bedeschi
Credo che abbia ragione lo storico Eric Hobsbawm quando rivendica nel suo ultimo libro (Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, edito da Rizzoli), recensito la grandissima attualità dell’ analisi del capitalismo svolta da Marx. In effetti, a rileggere oggi le pagine marxiane, non si può non rimanere colpiti dal fatto che il pensatore di Treviri aveva colto con una lucidità impressionante (e con un secolo e mezzo di anticipo!) le linee fondamentali di quel processo economico-sociale e culturale che noi oggi chiamiamo «globalizzazione». In questo senso le stesse pagine del manifesto sono estremamente preveggenti e più che mai valide oggi. Vale la pena di soffermarsi un poco su di esse.
La borghesia – scriveva Marx – non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Mentre tutte le classi sociali preborghesi avevano come prima condizione di esistenza l’immutata conservazione degli antichi modi produttivi, la borghesia realizza invece il continuo rivoluzionamento di tali rapporti, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali. Infatti il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti ha spinto la borghesia per tutto il globo terrestre. «Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni». Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopoliti la produzione e il consumo di tutti i Paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, essa ha annichilito le antiche industrie nazionali, che ha sostituito con nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili: industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano più soltanto in un Paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei Paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni Paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E ciò avviene non soltanto nella produzione materiale bensì anche in quella spirituale: i prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune; la unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili. Credo che nessun pensatore dell’Ottocento abbia avuto lo sguardo più acuto, fino a scorgere i tratti essenziali della nostra epoca.
E non solo: Marx è stato assai più antiveggente dei marxisti successivi (ed ebbe ben ragione quando dichiarò polemicamente: «Io non sono marxista»). Nel marxismo successivo, infatti, va perduta l’idea centrale di Marx: che il capitalismo è sviluppo continuo delle forze produttive, che esso è rivoluzionamento costante delle forme di produzione, che esso apre scenari sempre nuovi, più complessi, più difficili, più complicati, ma anche più ricchi e più affascinanti. Il marxismo successivo a Marx, invece, vede il capitalismo come impaccio, come declino, come forza frenante. Un pensatore della forza di Gramsci era convinto (tanto negli scritti del 1919-20 quanto nelle note carcerarie su Americanismo e fordismo) che il capitalismo aprisse la via alla stagnazione produttiva, tecnologica e scientifica. Ma questa non era solo una convinzione di Gramsci, bensì di tutto il marxismo della Terza internazionale. Una concezione destinata a plasmare l’orientamento di grandi movimenti politici. È appena il caso di ricordare che nel nostro Paese il Pci non solo non previde il «miracolo economico» del dopoguerra, ma si oppose fieramente al Mercato comune europeo e al Sistema monetario, convinto che l’economia italiana ne sarebbe uscita strangolata.
Questo modo di vedere assai poco marxista continua anche ai nostri giorni. Sia in settori politico-culturali dell’estrema sinistra, sia in settori politico-culturali della destra, si manifesta una costante ostilità verso la «globalizzazione», che viene vista come l’origine di tutti i mali. In questi ambienti si vorrebbe ritornare al passato (si vorrebbe cioè, per parafrasare Marx, «far girare all’indietro la ruota della storia»). Certo, la globalizzazione ci pone di fronte a un mare di problemi e di difficoltà, ci richiede infiniti cambiamenti e trasformazioni (anche nella mentalità), che non possiamo e non potremo fare senza sacrifici e senza sforzi; ma essa ci offre anche opportunità nuove, scenari nuovi, realtà assai più complesse e più ricche. In ogni caso, essa è un processo irreversibile, ed è una fantasia da «reazionari» (per riprendere la definizione che Marx diede dei critici del capitalismo che lo consideravano da un punto di vista precapitalistico) credere di poterla fermare.
(Pubblicato il 3 giugno 2011 – © «Corriere della Sera»)