di Stefano Folli
Davvero l’Italia dei 150 anni, giunta un po’ ammaccata al suo terzo Giubileo, è popolata da un gran numero di neo-borbonici, nostalgici degli statarelli pre-unitari, odiatori dell’Inghilterra? Davvero sono così tanti quelli disposti a dar credito alle contro-narrazioni e quindi a spezzare il canone risorgimentale per dimostrare che la vicenda del riscatto nazionale è stata in fondo una gran mistificazione? Per cui sarebbe in corso, da oltre un secolo, una specie di complotto storiografico rispetto al quale si tratta piuttosto di rivalutare le figure di Franceschiello o di Pio IX: loro sì amati dalle loro popolazioni, non come i piemontesi conquistatori.
La questione non è nuova, ma l’anno delle celebrazioni la ripropone inevitabilmente. E bisogna ammettere che il sentimento, pur vago, è abbastanza diffuso: quasi sempre in forme superficiali, propense a pescare in un antico bagaglio di pregiudizi e di luoghi comuni, ma anche in un certo “senso comune” popolare, in quanto tale virtuoso e contrapposto alle false verità dei ceti dirigenti. Basta consultare internet, visitare i siti anti-risorgimentali, che sono parecchi, o magari solo fare quattro chiacchiere con la gente che s’incontra: soprattutto nel Sud, ma non solo. La novità è che questa propensione al revisionismo o al rifiuto va oggi di pari passo con un alto grado d’indifferenza verso la Storia Patria, figlio a sua volta delle carenze della scuola, ma forse più propriamente di un clima generale che non incoraggia la coesione nazionale e in fondo alimenta la disunione a tutti i livelli. Ecco allora che vale la pena leggere Se Garibaldi avesse perso, curato da Pasquale Chessa. Un esercizio stimolante, affidato a sei storici importanti di diverso orientamento (Giuseppe Berta, Luciano Cafagna, Franco Cardini, Emilio Gentile, Mario Isnenghi, Giovanni Sabbatucci) cui tocca delineare cosa sarebbe accaduto se le cose non fossero andate come sono andate. È un’operazione che ha poco a che fare con la “fantastoria” e molto con l’esigenza di capire meglio quello che è accaduto a metà Ottocento e perché. In fondo, come dice Franco Cardini, che certo non è mai stato suggestionato dal Manierismo risorgimentale, “è sufficiente ordinare i fatti con particolare attenzione critica per capire quanto esile sia il confine che separa ciò che sarebbe potuto accadere, ed è in realtà accaduto, da ciò che, potendo succedere, non è in realtà successo”.
I fili s’intrecciano in forma talvolta casuale, oppure seguono l’ordito di un disegno fortunato. Ma quel che conta oggi è evitare la retorica oppure il suo opposto, appunto l’indifferenza, e riportare i giovani a studiare la Storia. Perché non si può disperdere il bene prezioso dell’Unità nazionale, come non si stanca di ripetere Giorgio Napolitano. A proposito di fatti da rimettere al loro posto, Pietro Pastorelli ha ricostruito la trama del rapporto fra Cavour e il Regno Unito. 17 marzo 1861. L’Inghilterra e l’Unità d’Italia propone una ricostruzione attenta, frutto di una ricerca d’archivio scrupolosa, del contributo che il Governo della regina Vittoria diede alla causa nazionale. Pastorelli è il più noto studioso italiano di “Storia diplomatica” e non a caso il suo saggio si fonda su materiale anche inedito che completa e integra il carteggio cavouriano, fino a gettare nuova luce su alcune delle pagine cruciali del Risorgimento. Le cose potevano andare diversamente? Certo, ma qui si capisce invece perché andarono come gli italiani sanno (o dovrebbero sapere). Grazie al genio politico-diplomatico di Cavour e alla sua straordinaria capacità di muoversi nel gioco delle influenze europee. Sullo sfondo, negli anni in cui l’Unità della nazione si compie, si consuma il declino dello Stato pontificio. L’ultimo e più ingombrante ostacolo al compimento del progetto unitario. Circa vent’anni decisivi e sonnolenti: dalla caduta della Repubblica romana nel ’49, con la restaurazione di Pio IX, ai dubbi del realista Cavour circa l’ineluttabilità di portare la capitale del Regno sulle rive del Tevere. Fino al crollo finale, con la Francia fuori gioco come protettrice del potere temporale e la breccia di Porta Pia nel ’70.
Se il gioco è ancora quello di capire perché la vicenda nazionale si è svolta come si è svolta e non diversamente, le pagine di Tomassini permettono di ricostruire con dovizia di dettagli e scrupolo di cronista la Storia di quegli anni in cui il mondo cambia e le onde del mutamento lambiscono i confini dell’antica monarchia papale. La feriscono, la stravolgono, scandiscono i ritmi della fine incombente, ma dilazionata. In fondo si dimostra che esiste un’alternativa al revisionismo stucchevole ed è la buona ricerca storica, come ci ha insegnato Renzo De Felice. La ricerca è in sé sempre “revisionista”, in quanto porta nuovi documenti e getta luce sugli angoli bui. Non per un obiettivo politico, ma per illuminare gli interrogativi irrisolti. E spiegare perché infine il mosaico si è composto in un certo modo. Nel caso del Risorgimento bisogna dire: per fortuna.
(Pubblicato il 29 maggio 2011 – © «Il Sole 24 Ore»)