di Eugenio Di Rienzo
Il 20 luglio del 1944 falliva il golpe, organizzato dal colonnello Claus von Stauffenberg e da alcuni alti ufficiali della Wermacht, che si proponeva di rovesciare il sistema nazionalsocialista e di formare un governo provvisorio che avrebbe dovuto far uscire la Germania dal conflitto. La storiografia si è a lungo interrogata sulle ragioni di quella disfatta. Il sollevamento, a parte il verificarsi di alcune sfavorevoli circostanze (la mancata eliminazione di Hitler nel quartier generale di Rastemburg e l’impossibilità di entrare in possesso dei mezzi di comunicazione) aveva rivelato un dilettantismo, inconcepibile da parte di uomini che costituivano l’élite delle forze armate tedesche. Tanta superficialità nell’esecuzione del colpo di mano faceva ipotizzare che il vero motivo dell’insuccesso fosse dovuto alla mancata coesione del gruppo dei cospiratori. I congiurati di luglio erano, infatti, divisi tra un’ala favorevole ad aprire una trattativa di pace con Stati Uniti e Inghilterra e un’altra componente fortemente intenzionata invece a chiedere un armistizio alla Russia.
Su questa decisione avevano pesato alcune manifestazioni di buona volontà provenienti dal Cremlino. Se già nel dicembre del 1942, in alcuni ambienti diplomatici era circolata la voce che «l’Urss era disposta a firmare la pace in soli 8 giorni», questa affermazione era stata indirettamente confermata da alcune mosse politiche di Stalin. Il 6 novembre di quell’anno, quando la sacca di Stalingrado era chiusa ma non ancora distrutta, il premier sovietico, rendeva pubblica la sua intenzione ad accordarsi con la casta militare tedesca per arrivare a siglare una pace onorevole per entrambi le parti. Nel discorso per il venticinquesimo anniversario della Rivoluzione di ottobre, Stalin affermava che non era nelle sue intenzioni di «distruggere la struttura bellica del Terzo Reich, cosa non solo possibile ma anche inutile per quello che riguardava l’obiettivo della vittoria finale». Questa dichiarazione faceva seguito a quella contenuta nell’Ordine del giorno indirizzato ai Commissari del Popolo per la difesa nazionale del 23 febbraio 1942, dove il dittatore russo sosteneva di rifiutare l’identificazione tra la cricca nazista e il popolo tedesco, aggiungendo che quando Hitler fosse scomparso dalla scena lo Stato germanico avrebbe potuto e dovuto sopravvivere senza nessuna rilevante diminuzione della sua potenza.
I vertici e i quadri superiori della Wermacht, a cui erano rivolti questi messaggi, erano, d’altra parte, propensi a rinnovare un accordo con la Russia sulla falsariga di quella attiva collaborazione che, dal 1920 fino al 1933, aveva permesso alla Germania di utilizzare il territorio sovietico come base logistica per attuare il suo riarmo, in spregio alle clausole restrittive di Versailles, e all’Urss di ricevere assistenza tecnica da Berlino per riorganizzare l’Armata Rossa. Della convenienza di quell’intesa, che, subito dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, il comandante in capo della Reichwher, Hans von Seeckt, aveva giustificato, affermando che «se la Germania si metterà dalla parte della Russia, sarà invincibile, mentre se si metterà contro la Russia, perderà l’unica speranza che le resta per il futuro», si era fatto nuovamente interprete, nel novembre del 1942, Wilhelm Josef Ritter von Thoma, uno dei più brillanti ufficiali superiori delle Panzertruppe naziste.
Il generale tedesco, già comandante vicario dell’Afrika Korps durante l’assenza di Rommel, veniva catturato, il 4 novembre 1942, al termine della seconda battaglia di El Alamein. Nel corso del suo viaggio di trasferimento verso Londra, egli rilasciava al Vice-Maresciallo dell’Aria, Alfred Conrad Collier, una dichiarazione fortemente critica verso la strategia militare di Hitler che aveva condotto la Germania ad impegnarsi nel fallimentare conflitto con la Russia, in assenza di reali motivazioni politiche tali da determinare una guerra di annientamento tra il sistema nazista e quello sovietico che erano legati invece da una profonda affinità ideologica.
Le considerazioni espresse da von Thoma avrebbero fatto presa anche sul principale promotore dell’«Operazione Valchiria». Un rapporto dell’intelligence statunitense del febbraio 1945, (fino ad ora restato sepolto negli Archivi Nazionali di Washington), rivelava, infatti, che von Stauffenberg aveva allacciato stretti rapporti con l’ambasciata russa a Stoccolma per concordare gli obiettivi del putsch. Una volta ucciso il Fürher e formato un comitato di salute pubblica, i congiurati avrebbero immediatamente cessato le ostilità sul fronte orientale, essendosi persuasi che l’Urss avrebbe concesso alla Germania migliori condizioni di pace di quelle decise dagli alleati occidentali, ormai risoluti a smembrare il territorio del Reich e a distruggerne l’apparato economico e militare.
Una testimonianza risolutiva per confermare questa ipotesi ci viene offerta dalle rivelazioni del maggiore Joachim Kuhn, uno dei più stretti collaboratori di von Stauffenberg, che, dopo il 20 luglio, sfuggiva alla Gestapo e riusciva a passare le linee per consegnarsi nelle mani dei sovietici. Trasferito a Mosca, Kuhn stilava un memoriale indirizzato a Stalin che, reso pubblico nel 1997 da Boris Yeltsin, sarebbe stato poi consegnato a Helmut Kohl. In quel documento, Kuhn sosteneva di esser stato convinto da von Stauffenberg a cospirare contro Hitler, fin dall’agosto del 1942, allo scopo di raggiungere la pace e di realizzare una «rinascita della patria tedesca» che poteva scaturire soltanto da un accordo con l’Urss perché gli angloamericani miravano alla distruzione della Germania come Grande Potenza.
(Pubblicato il 2 settembre 2010 – © «Libero»)