di Paolo Mieli
L’Italia fascista è stata l’unico Paese totalitario che abbia vissuto, per oltre vent’anni, in un regime di sostanziale diarchia. E, in considerazione di come andò a finire (Vittorio Emanuele III che il 25 luglio del 1943 fa arrestare Benito Mussolini «sfiduciato» dal Gran Consiglio e lo rimpiazza con Pietro Badoglio), ha costituito un caso di tirannide molto anomalo, dove uno dei due diarchi, il re, è stato in grado di portare a compimento una congiura a danno dell’altro, il dittatore. È evidente che, se la Corona riuscì a individuare lo spazio in cui ordire quella trama cospirativa, fu per l’andamento della guerra (gli Alleati erano sbarcati in Sicilia in quello stesso luglio). Ma è altrettanto evidente che uno spazio del genere non si crea da un giorno all’altro e che, dunque, negli anni che intercorsero tra la marcia su Roma (ottobre 1922) e la caduta del fascismo (luglio 1943) la monarchia si mosse in una qualche autonomia dal regime.
È comprensibile che questo tema non sia stato approfondito dagli storici negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, anni in cui la polemica contro casa Savoia tendeva a mettere in risalto il via libera concesso da Vittorio Emanuele III all’ascesa al potere di Mussolini piuttosto del ruolo che quello stesso monarca ebbe nella destituzione del Duce. Ma è davvero strano che si sia dovuto attendere il libro di Paolo Colombo La monarchia fascista 1922-1940 (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino) perché, per la prima volta, l’argomento di questa strana convivenza tra monarchia e fascismo fosse affrontato in modo compiuto ed esauriente. Colombo stesso, nell’ introduzione a La monarchia fascista, manifesta un più che giustificato stupore per il fatto che un tema così importante per la storia politica italiana sia stato sostanzialmente trascurato per più di sessant’anni e che ad esso non siano mai stati dedicati studi specifici e approfonditi. Beninteso: pagine interessanti sulla questione sono state scritte da molti di coloro che si sono occupati del ventennio fascista, in particolare da Gioacchino Volpe, da Renzo De Felice e dal suo allievo Emilio Gentile, da Nino Valeri, da Alberto Aquarone, da Silvio Lanaro, da Roberto Martucci, da Francesco Perfetti.
L’argomento è ad ogni evidenza centrale in due volumi indispensabili per conoscere le opposte versioni di questa storia: quello dell’aiutante di campo del re, Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III (Il Mulino) e quello dello stesso Benito Mussolini Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota nell’Opera Omnia mussoliniana pubblicata da La Fenice tra il 1951 e il 1963. Ma La monarchia fascista è il primo libro dedicato per intero a quella strana diarchia. Del ritardo di cui si è detto, secondo l’autore, è «colpevole soprattutto la storia istituzionale per non aver trovato la spinta sufficiente (o forse il coraggio) di affrontare un tema che negli anni del dopoguerra appariva sicuramente spinosissimo, ma intorno al quale un dibattito consapevole e ben documentato sarebbe stato quanto mai opportuno per la costruzione della memoria civica del nostro Paese». E invece, mentre si è avuta una «sterminata letteratura» sul fascismo, sull’altro polo della diarchia si è registrato, sostanzialmente, silenzio. Il libro di Colombo non sottace le responsabilità del re – preoccupato di una sua eventuale detronizzazione a vantaggio del cugino Emanuele Filiberto duca d’Aosta, che si era fatto vedere in compagnia del futuro Duce ed era stato persino in visita agli squadristi a Merano, Perugia e Spoleto – in merito all’ avvento al potere di Mussolini, nell’ottobre del ’22. Ma mette in risalto come Antonio Salandra, lo stesso presidente del Consiglio Luigi Facta e molti altri giocassero all’ inizio degli anni Venti su più tavoli (compreso quello di Mussolini) al fine di assicurarsi un ruolo di primo piano per l’immediato futuro.
In ogni caso è un fatto che Vittorio Emanuele III aprì le porte al capo del fascismo e quando, poco dopo la marcia su Roma, nel giorno dei morti assistette all’omaggio delle centurie fasciste alla tomba del Milite ignoto, «pur con la mano alla visiera e mai alzandola nel saluto romano», diede pubblicamente il suo benestare al nuovo governo in camicia nera. Governo che diede immediatamente disposizione perché fossero censurate tutte le foto in cui era il Duce a salutare con il saluto militare e soprattutto un’istantanea che immortalava Mussolini, inguainato nella sua divisa, mentre abbozzava un goffo inchino per stringere la mano a Vittorio Emanuele. Ed è così, accompagnata anche da innumerevoli piccinerie, che nacque la diarchia. Osserva Colombo, «che quando si tratta di diarchia, naturalmente, ci si aspetta di avere a che fare con un binomio; ma forse va detto che in questo caso non è del tutto vero, giacché in ciascuno dei due termini di quel binomio coesistono più anime, se non addirittura più soggetti». Se è vero infatti che «già Vittorio Emanuele incarna una istituzione ricca di sfaccettature, pure Mussolini è uno e trino; è capo del governo, appunto, ma è anche Duce e segretario del Partito fascista… non a caso è stata giustamente oggetto di attenzione la delicata (e anche qui mai completamente trasparente) relazione diarchica tra partito e Stato durante il ventennio». Il che fa pensare – pur limitandoci a questi aspetti e senza allargare il ragionamento a Chiesa, finanza e industria – a «un regime che non riesce a essere appieno totalitario perché incontra limiti che ne escludono l’onnicomprensività».
Le prime tensioni tra Vittorio Emanuele e il capo del fascismo si ebbero quasi subito, a seguito della decisione di istituire il Gran Consiglio, presa in una riunione informale tenuta la sera del 15 dicembre 1922 nell’appartamento di Mussolini al Grand Hotel di Roma. Da quel momento, fino alla «costituzionalizzazione» del Gran Consiglio stesso alla fine del 1928, il re mostrerà di non gradire affatto la creazione di quell’organo supremo che coordinava e integrava tutte le attività del regime dal quale il monarca era escluso e che si riuniva (sempre meno in quei vent’anni) in seduta segreta sotto il diretto controllo del capo del governo da cui era presieduto. Tanto più che quel nuovo organismo per statuto si intrometteva in alcuni campi di prerogativa regia, tra cui le attività del Senato, le relazioni internazionali, la nomina del capo del governo e addirittura le decisioni in materia di successione al trono. In due lettere del 12 e del 14 settembre del 1928 Luigi Federzoni suggerisce a Mussolini di muoversi con cautela in questo campo. Giovanni Gentile interviene sul «Popolo d’Italia» per spiegare che il re ha tutto da guadagnare dall’ istituzione del Gran Consiglio. Ma, pur nella decisione di non manifestare pubblicamente il proprio disappunto, Vittorio Emanuele non se ne darà per inteso. Complessi sono, come si è appena accennato, i rapporti tra fascismo e Senato, considerato una roccaforte monarchica. Nel Dizionario di politica, curato dal Partito nazionale fascista, la voce «Senato» non c’è: «una esclusione», osserva Colombo, «che non può essere inconsapevole e perciò ha un preciso significato simbolico». Un rapporto della polizia politica datato 11 settembre 1935, riferisce di una fronda senatoriale contro la politica coloniale di Mussolini: ne farebbero parte «Federzoni, Casati, Caviglia, Badoglio ed altri, notoriamente fedeli alla monarchia, di cui non ci si è voluto dire i nomi», i quali mediterebbero di premere sul re affinché distolga il Duce dai suoi propositi di guerra africana e, qualora se ne dia l’occasione, il sovrano tolga al Duce «il timone dello Stato, per passarlo ad un uomo che goda le simpatie straniere».
Vittorio Emanuele è effettivamente contrario alla guerra d’Etiopia. Già nel febbraio del 1934 il re si mostra «impressionato per il pericolo di guerra con l’Abissinia»; sei mesi dopo, in luglio, scrive a Mussolini che «non è contento» dell’annunciata impresa; a fine anno dichiara al governatore in Somalia, Maurizio Rava, che quell’ imminente guerra non è «di suo gusto»; Nino d’Aroma (direttore dell’Istituto Luce) riceve da Mussolini una confidenza secondo la quale il monarca teme di «impantanarsi» in «deserti ed avventure africane». La maggiore preoccupazione del «re soldato» sta nelle possibili ricadute negative in termini di relazioni con il resto d’Europa e lo scrive a Mussolini ancora il 7 agosto del 1935; testimonia il figlio Umberto che, per quel che riguarda la conquista dell’Etiopia, suo padre «non riteneva che ne valesse la pena». Mussolini è molto arrabbiato per queste resistenze e, pur cercando di evitare incidenti istituzionali, fa conoscere la sua irritazione. E dopo il successo dell’ impresa non dimentica quelle divergenze. Su sollecitazione fascista, il «Corriere della sera» del 10 maggio 1936 titola a caratteri cubitali «Il Duce fonda l’impero» e sotto, in caratteri minuscoli, riferisce che «il Re assume il titolo di Imperatore d’Etiopia». Nell’articolo di fondo, intitolato «Impero», Vittorio Emanuele non è neppure menzionato. Al momento del decreto in cui il re è dichiarato imperatore, nella prima versione non si fa alcun cenno ai suoi successori. Il sottosegretario alla presidenza Giacomo Medici del Vascello segnala il fatto al monarca, il quale, a seguito di «vivaci rimostranze» ottiene la correzione del testo. Dopodiché nuovi attriti si hanno per la duplice attribuzione (al re e al Duce) del grado di primo maresciallo dell’Impero. Il monarca non gradisce. Mussolini risolve a suo modo la questione e in un discorso del 30 marzo 1938 afferma: «Nell’Italia fascista il problema del comando unico – che tormenta altri Paesi – è risolto, le direttive politico-strategiche della guerra vengono stabilite agli ordini del Re da uno solo, da chi vi parla».
Ancora tensioni nel 1938 quando Mussolini vorrebbe la testa di Carlo Sforza, già ministro degli Esteri tra il 1920 e il 1921 che dal ‘ 27 è emigrato all’estero. Il Duce pretende che sia fatto decadere dal seggio senatoriale. Vittorio Emanuele si oppone (tra l’ altro Sforza, in quanto insignito del Collare della SS. Annunziata, è suo «cugino») e il capo del fascismo soprassiede «per non aprire un inutile contenzioso con il re». Quasi ogni partecipazione dei due diarchi a una manifestazione pubblica è occasione di incomprensioni. Il 4 novembre 1938, durante le celebrazioni della vittoria nella Grande guerra, il re rimarca la mancata esecuzione della Marcia Reale. Mussolini gli dice che è un caso. Vittorio Emanuele ribatte che in otto secoli non era mai accaduto. Il Duce replica stizzito: «Questo stato di cose deve finire».
Anche gli incontri con i reali stranieri sono motivo di dissapore. Nel maggio del 1923 vengono a Roma i reali d’Inghilterra e, per il pranzo, il Duce, relegato nella parte opposta della tavola, a grande distanza da Giorgio V, fa conoscere il suo disappunto. Sei mesi dopo nuovo pranzo, stavolta per i reali di Spagna: Mussolini siede sullo stesso lato di Alfonso XIII (ma a tre persone di distanza). Solo nel ’27, in occasione della visita dei reali d’Egitto, Mussolini siede alla destra di re Fuad e Vittorio Emanuele alla sinistra. Finalmente la diarchia è ben raffigurata.. Da questo momento in poi, però, un tal genere di incontri si farà sempre più raro. Molte teste coronate saranno a Roma nel gennaio del 1930 per le nozze tra il principe Umberto e Maria José. Ma successivamente, lungo il corso degli anni Trenta, l’unico sovrano che verrà a trovare il re italiano sarà, nel marzo del 1934, quello del Siam. Nel 1939 si ha l’ ennesimo conflitto quando Mussolini vuole sottomettere l’Albania. Il re fa sapere al ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di non essere d’accordo e di non ritenere opportuno rischiare un’avventura per «prendere quattro sassi». Mussolini si spazientisce contro quella «testa di c… del re che fa resistenza». E quando a Bologna un battaglione di bersaglieri mobilitato per l’Albania intona il canto «vogliamo la pace e non la guerra» senza che gli ufficiali presenti dicano alcunché, Mussolini si arrabbia con l’esercito e accusa i militari di essere «dominio della monarchia». Il re stabilisce un rapporto con Ciano (insignito del Collare della SS. Annunziata) che darà i suoi frutti nel luglio del ’43 allorché il genero del Duce parteciperà alla congiura contro il suocero. Mussolini è sempre più insofferente nei confronti della corona, che accusa di essere uno dei «vagoni vuoti per di più molto spesso frenati» che il fascismo deve tirarsi dietro; gli scappa detto che bisognerebbe «farla finita con Casa Savoia» e il suo giudizio su Vittorio Emanuele è sempre più aspro: «Un piccolo uomo, acido e infido». La polizia politica, osserva Colombo, «riserva un’attenzione privilegiata a Casa Savoia anche con irrispettose forme di ispezione preventiva sui pacchi postali diretti a membri della famiglia reale». I poliziotti di Mussolini rivelano presto il sospetto che «a Corte vi sia una forte corrente contro il Duce». Tale fronda monarchica sarebbe capitanata da una dama di corte «notoriamente antifascista ed accanita francofila» la contessa Maria Bruschi Falgari, vedova di Attilio Gori Mazzoleni. L’Ovra tiene sotto osservazione la Bruschi fino al 1939 quando – nonostante il suo status di dama di compagnia della regina – viene addirittura privata del passaporto, malgrado abbia 73 anni. Sotto controllo finiscono altre dame di corte come la contessa Francesca Guicciardini o la marchesa Caterina Leonardi di Villacortese. Corposi dossier sono anche riservati al cavaliere d’onore della regina Elena, il marchese Vittorio Solaro del Borgo, e al cappellano maggiore di corte monsignor Eugenio Beccarla, presentato come persona «di idee intransigenti e poco propenso per il Regime Fascista». In molti rapporti di polizia, successivi al 1938, si accusa Casa Savoia di essere tiepida nei confronti della persecuzione degli ebrei, quando non addirittura di interferire nell’ applicazione delle leggi razziali. L’erede di Vittorio Emanuele, Umberto, è tenuto d’occhio in modo particolare fin dall’estate del 1926 quando all’Arena di Verona «il Principe si era alzato al suono della Marcia Reale e si era invece ostentatamente seduto alle prime battute di “Giovinezza”». Nelle carte di polizia sono contenute insinuazioni circa una sua presunta omosessualità (e talvolta, non senza contraddizione, sul suo dongiovannismo). Viene descritto come «depravato», «cocainomane», «già gravemente colpito da alcolismo». Si racconta che «quasi ogni giorno si recherebbe dal Papa per prendere consigli» e che spesso e volentieri invierebbe al padre lamentele per questo o quell’aspetto del regime. Il tutto aggravato dal suo matrimonio con Maria José, che viene individuata, non a torto, come una nemica della Germania hitleriana e dell’Italia di Mussolini. La tensione è talmente forte che nel maggio del 1938 Vittorio Emanuele avverte l’ esigenza di un clamoroso gesto di distensione e va in visita alla casa natale del fondatore del fascismo, rendendo per di più omaggio alla tomba dei genitori di Mussolini. Per comprendere l’entità o meglio l’eccezionalità del gesto va tenuto presente che né lui stesso si era recato nel 1928 ai funerali di Giovanni Giolitti, né suo nonno, Vittorio Emanuele II era andato nel 1861 a quelli di Cavour.
Ma i rapporti tra Vittorio Emanuele e Mussolini sono ormai sotto il segno della reciproca sopportazione e non sono destinati a migliorare. Anche le più acute personalità del regime capiscono che, al di là delle apparenze, in quella diarchia c’è qualcosa che non funziona. Si chiede Giuseppe Bottai, in una pagina di diario del 1938: «Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati?» La risposta a questa domanda verrà tra il 24 e il 25 luglio del 1943 quando, complice Bottai, un diarca verrà messo in difficoltà dai suoi sottoposti e l’altro ne approfitterà per assestargli un colpo esiziale. Altro che «nuovi valori e significati» partoriti dalla «duttilità giuridica degli italiani». Dopo vent’anni di convivenza non si era giunti neanche alla «normalizzazione empirica del binomio».
(Pubblicato il 2 settembre 2010 – © «Corriere della Sera»)