di Devis Tiramani e Eugenio Di Rienzo
Poco più di due settimane fa, Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte internazionale dell’Aia, ha accolto la domanda di Giuseppe Tiramani che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte del padre, Lodovico Tiramani (milite scelto della Guarda nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, trucidati dalle bande partigiane dopo il 25 luglio 1945. L’ipotesi di reato è genocidio. Il 12 marzo, il Giornale ha dato conto della vicenda con un lungo articolo di Eugenio Di Rienzo. Oggi il figlio di Giuseppe Tiramani, Devis, ci scrive questa lettera alla quale segue la risposta di Di Rienzo.
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Caro Eugenio Di Rienzo, le scrivo per ringraziarla dell’articolo scritto il 12 marzo scorso riguardante il ricorso presentato da mio padre alla Corte Internazionale dell’Aia. Abbiamo molto apprezzato le parole che ha avuto la bontà e il coraggio di scrivere sul «Giornale». Come può immaginare, la storia della nostra famiglia ha toccato anche me. Io sono arruolato nell’Arma dei Carabinieri dal 1999 e presto tutt’ora servizio presso il Nucleo Radiomobile di Bobbio (Piacenza). Ricordo ancora con amarezza il periodo in cui fui arruolato nella Benemerita, quando la notizia trapelò in paese – Rustigazzo – arrivarono a casa mia alcune telefonate anonime contro di me, «il nipote del fascista». E da quanto ho saputo certe «rimostranze» furono manifestate anche nel comando Stazione Carabinieri cui fui assegnato. Ma preferisco non sapere se sia vero e no…
Come vede, caro Di Rienzo, certe macchie non scompaiono nemmeno dopo sessant’anni. Mio padre Giuseppe nella sua vita ha patito ben di peggio. Qualche volta, in rare occasioni, ha raccontato parte delle angherie subite quando era bambino. Mia nonna, mancata lo scorso aprile, mi raccontò di percosse inflitte a papà quando andava a scuola, e di persone che tenevano lontani i loro figli da lui dicendo che era «ammalato» di qualche patologia strana e contagiosa…
Mia zia Luisa, la sorella di papà, una volta mi raccontò che in giovane età, attorno ai 18-20 anni, una domenica si recò dopo tanti anni che non la frequentava più nella chiesa del suo paese. Portava al collo una catenella d’oro con un piccolo ciondolo. Qualcuno la avvicinò – non mi disse mai chi fosse – e prendendole la catenina in mano come per strapparla, le disse in dialetto piacentino «e qusta che, chi t’la data?», «e questa qui, chi te l’ha data?», per dire che la figlia di un fascista non poteva indossare nulla che avesse un qualche valore…
Ricordo i racconti di mia nonna Pierina, di quando in lacrime mi parlava di quando nonno Lodovico fu rapito e ucciso dai partigiani, e di quando andò a recuperarne la salma insieme al mio bisnonno Giovanni, suo padre. Lo trovarono martoriato e crivellato di colpi. Indosso aveva ancora i suoi cenci (mio nonno era un terziario francescano). Dopo pochi giorni che lo avevano seppellito, mia nonna mi raccontò che alcuni dei «briganti» – così li chiamava lei – passò in località Mulino del Duca ove il mio bisnonno aveva un mulino: lei stava lavando i panni nel torrente Rugarlo, due o tre di loro portando a tracolla dei fucili si fermarono, la guardarono e le chiesero da bere. La nonna, capendo cosa stava succedendo e avendo i suoi due figli in casa, andò in lacrime a prendere da bere, senza proferire parola, sapendo che se si fosse azzardata a parlare avrebbe messo in pericolo la sua stessa vita e quella dei bambini. A quel punto i partigiani sicuri del silenzio di mia nonna si allontanarono dicendole: «E per quella cosa, hai capito vero?». Lei piangendo rispose solo «Sì». E avrei ancora tante altre cose da raccontare…
Mio padre ha fondato l’«Associazione vittime dei partigiani», a Piacenza. Spero che la questione aperta con la sua lettera alla Corte Internazionale dell’Aia non si chiuda con un nulla di fatto. Grazie davvero, caro Di Rienzo, per Lei un articolo è sicuramente una questione lavorativa di routine, ma per noi – per la memoria di mio nonno Lodovico e per tutti coloro che come lui sono caduti abbracciando quella che da qualcuno era ritenuta una «causa sbagliata» – una ventata di giustizia, e di onore.
Io non so chi, giudicando una guerra, possa concedere o togliere la ragione delle scelte che ogni combattente fa, secondo la propria morale e le proprie convinzioni. Io so che mio nonno fece un giuramento e quel giuramento lo ritenne vincolante fino all’estremo sacrificio. Io stesso ho giurato fedeltà alla Patria per due volte, prima da Alpino e poi da Carabiniere. E sono orgoglioso della divisa che porto e del Giuramento che ho fatto.
Il 4 novembre sono voluto andare con papà al Sacrario di Redipuglia. Ho salito quei gradini da solo, in silenzio, indossando il mio cappello da Alpino… Sono arrivato nella chiesetta che lo sovrasta, ed entrando ho letto queste parole scritte sui due lati della chiesa: «Queste pareti custodiscono trentamila Militi Ignoti a noi ma Noti a Dio». Ancora adesso penso a loro, a mio nonno e a tutti i morti, dell’una e dell’altra parte. Mi inginocchiai in quel posto sacro e piansi. Piansi in silenzio per alcuni minuti, prima di salutarli militarmente congedandomi da loro.
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Caro Devis Tiramani, scrivere dell’eccidio di suo nonno e delle persecuzioni subite dalla sua famiglia, costretta alla condanna del silenzio su quanto accaduto al loro congiunto, non è stato per me, le assicuro, «una semplice questione lavorativa di routine». Si è trattato piuttosto di un preciso dovere d’informazione nell’esercizio del quale mi è stato difficile mantenere quel distacco dagli eventi che pure dovrebbe far parte della deontologia dello storico. Per una volta mi è capitato di pensare che il vecchio Benedetto Croce avesse errato affermando che la storia non possa mai essere «giustiziera ma sempre giustificatrice» e di ritenere invece che proprio l’analisi del passato debba essere un’attività che se certamente non può far giustizia non deve però mai cessare di chiedere giustizia.
Mi hanno confermato in questa opinione le comunicazioni dei lettori del «Giornale», che hanno riempito la mia casella di posta elettronica nei giorni scorsi, tante da poter formare un volume che sarebbe opportuno intitolare Lettere dei condannati a morte dalla resistenza italiana. Urla dal silenzio di un popolo restato senza nome e senza voce, per troppi decenni, che mi chiedevano di ricordare le uccisioni singole e le stragi di massa che si sono succedute nelle campagne, nei borghi, nelle grandi città del nostro paese. Esecuzioni sommarie di militari della Repubblica Sociale Italiana ma anche assassinii, violenze, stupri efferati perpetrati sui loro familiari e sui tanti, altri responsabili, agli occhi dei «liberatori in casacca rossa», di aver voluto mantenere una parvenza di vita civile nel grande «macello messicano» (come disse Ferruccio Parri) che si scatenò in quegli anni. Perché ad essere colpiti furono anche carabinieri, militari del Regio Esercito, amministratori pubblici, sacerdoti, magistrati, persino medici, avvocati, semplici borghesi, rei di mantenere in piedi, con la loro semplice presenza fisica, quella sottile linea di contenimento che separava l’umanità dalla barbarie.
Spinto da queste testimonianze sono ancora una volta disceso nell’inferno di quella stagione di male assoluto, cercando però di non farmi sopraffare dall’orrore, ma tentando al contrario di trovare una ragione giuridica che dia soddisfazione alla domanda di giustizia, senza odio, di cui lei, caro Tiramani, si è fatto interprete, anche a nome di molti altri. Per farlo ho riletto gli atti del processo tenuto presso il Tribunale militare di La Spezia del giugno 2005, con cui si condannavano all’ergastolo, «per crimine contro l’umanità», i soldati tedeschi della sedicesima Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, che, il 12 agosto 1944, massacrarono 560 abitanti del villaggio di Sant’Anna di Stazzema, a ridosso delle Alpi Apuane, accusati di aver dato supporto alle formazioni partigiane.
I giudici spezzini motivavano la loro sentenza sostenendo che «la vile ed ignobile azione a Sant’Anna non trovava giustificazione in nessuno stato di necessità bellica ma doveva considerarsi la lucida attuazione di un deliberato proposito, la cui gratuità era andata ben al di là del necessario e dell’immaginabile». Eppure, i carnefici nazisti avevano agito sotto la copertura formale del «diritto di rappresaglia» contro le popolazioni civili, previsto durante le ostilità, dalla Convenzione dell’Aia e di Ginevra. Non così era accaduto per i carnefici di alcune formazioni comuniste (non combattenti di una «guerra per bande», ma molto spesso semplici «banditi») che si macchiarono di gran parte dei loro delitti, dopo il 25 aprile 1945, quando tutta l’Europa aveva deposto le armi. La pietà cristiana vuole, caro Tiramani, che tutti i morti siano considerati eguali (precetto che questo paese per molto tempo ha dimenticato). Quella degli uomini, per quanto imperfetta e tardiva essa sia, ci obbliga però a considerare eguali, dinnanzi al foro della nostra coscienza, anche i loro boia.
(Pubblicato il 28 marzo 2010 – © «il Giornale»)