di Fabio Grassi
La geografia ci condannava, forse ancora ci condanna, a non poter essere un defilato Portogallo, e ci sta. Già nella prima guerra mondiale, detto con grande fatica e imbarazzo pensando ai seicentomila morti, probabilmente era impossibile restare neutrali, perché probabilmente saremmo stati in balìa della coalizione vincitrice, e ci sta. Bene: che fare nel 1939-40, quando, anche a causa delle arcaiche smanie colonialiste mussoliniane (comuni per altro a tutte le Potenze occidentali), si è arrivati di nuovo alla guerra europea e l’Italia si è formalmente legata mani e piedi alla Germania con quell’unicum diplomatico chiamato Patto d’Acciaio?
Mussolini che sa delle condizioni penose delle nostre forze armate, delle nostre riserve energetiche e valutarie e della nostra dotazione di materie prime, sta alla finestra, spera di avere un ruolo autorevole in una specie di nuova Monaco e, facendo la parte del poliziotto cattivo manda avanti il genero Ciano come poliziotto buono a tessere tele con Francia, Inghilterra, Stati Uniti, ma anche con l’attivissima diplomazia vaticana. Mentre assiste impotente alla spartizione dell’Europa orientale tra Germania e URSS e comprende che la sua guerra, se proprio dovrà esserci, se proprio non finirà presto e bene con l’Italia come gradita arbitra, dovrà essere una guerra contro la Germania, che si prepara a divorare il «Grande spazio» balcanico-danubiano dove l’Italia ambiva ad essere egemonica. Questa guerra contro la Germania può essere fatta dall’Italia, anche come alleata della Germania, e sarà la «guerra parallela» che avrà effettivamente luogo. Ma fino alla fine della drôle de guerre, fino all’apparente decisiva vittoria sul fronte francese delle armate hitleriane, Mussolini non esclude del tutto che possa essere fatta anche contro il Terzo Reich, ripetendo il voltafaccia del 1915, anche se l’idea suscita in lui non poco imbarazzo.
Questo e molto altro ce lo spiega benissimo Eugenio Di Rienzo nel suo nuovo libro: L’ora delle decisioni irrevocabili. Come l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, edito da Rubbettino Editore. Un altro suo contributo che, anche per chiarezza ed eleganza di scrittura, si pone autorevolmente, sull’argomento, come caposaldo di riferimento per la futura letteratura storiografica. Il titolo, se non mi inganno, ha un ironico sottinteso, perché quel che emerge è che quelle decisioni del 10 giugno 1940 furono, fino a circa un mese prima, ampiamente “revocabili”. Ma allora perché furono prese quando, per citare le parole del Duce «l’ora segnata dal destino», batté imperiosa «nel cielo della nostra patria»?
Dopo aver letto il saggio di Di Rienzo, mi sento di dire che non poterono essere revocate principalmente a causa dell’atteggiamento della Gran Bretagna. Se geografia, e dunque storia, hanno spinto, forse costretto, il nostro Paese a non essere un defilato Portogallo, o una «Svizzera moltiplicata per dieci» sembra proprio che il Regno Unito non si sia mai rassegnato al fatto che l’Italia unita non fosse, non potesse essere, un suo comodo Portogallo o un servizievole Belgio. Londra certamente teme Berlino, ma, in misura sproporzionata, non corrispondente al divario oggettivo di forze tra Berlino e Roma, teme anche Roma, perché la Penisola è protesa al centro del Mediterraneo e può minacciare Gibilterra, Malta, Cipro, Suez, la Grecia, suo antico Stato vassallo e precludere la libertà di manovra della Mediterranean Fleet nel canale di Sicilia e nel Mediterraneo orientale. A Hitler, in fondo, l’Impero Britannico marittimo va benissimo: il suo Lebensraum è progettato come continentale (infatti fino all’ultimo non capirà e detesterà Churchill per la sua indomita volontà di resistere, anche quando tutto sembrò perduto per la «perfida Albione»). Molti, infatti, a Londra (Chamberlain, Halifax, Lloyd George, il Primo ministro della Grande Guerra, che aveva definito il Führer il «Washington della Germania»), in riservata sede ma anche nell’aula di Westminster, si chiedono perché ci si debba immolare per battersi contro una Nazione, un paese che ha altrove (e principalmente contro la Russia bolscevica) i suoi obiettivi.
È l’idea della promozione dell’Italia a un livello superiore di coabitazione e di partenariato nell’ambito mediterraneo e africano che proprio non va giù ai responsabili della politica estera britannica, che dettano la linea ai tremebondi colleghi francesi e, dell’Italia, respingono perfino le richieste ragionevoli. Certo, contano anche le ideologie e le personalità. I leader liberali sanno, o percepiscono, che Mussolini non è uno scaltro cattolico reazionario come Franco e Salazar o un freddo calcolatore come il turco İsmet İnönü (tutti e tre, infatti, resisteranno a molte tentazioni e terranno i propri rispettivi Paesi fuori della guerra). Nell’ideologia fascista c’è un nucleo insopprimibile di dinamismo irrazionalista e aggressivo, o perlomeno di retorica sovversiva che prima o poi costringe a “fare qualcosa”. Ma con ciò, come nel gioco dell’oca, si deve tornare indietro: il fascismo in Italia non si è imposto anche, e molto, per il discredito di un’Italia liberale che era stata continuamente umiliata dalle potenze anglosassoni al tavolo della pace, in particolare da una Gran Bretagna che aveva ossessivamente operato per escluderci dal Mediterraneo orientale, e quindi, torno a dire, da una Gran Bretagna che non accettava che l’Italia potesse essere qualcosa di diverso da un docile Portogallo?
Tutto questo non scusa affatto Mussolini e il regime fascista e, sia ben chiaro, nulla di simile emerge dal libro di Di Rienzo. Ripudiata l’intelligente proposta di riforma del generale Di Giorgio, in quindici anni l’esercito italiano era rimasto un corpo elefantiaco e scalcagnato, con il passare del tempo sempre più arretrato sia dal punto di vista dell’armamento sia dal punto di vista della dottrina militare. Oltretutto un’ingentissima quota di risorse è stata dilapidata in Etiopia e in Spagna. Quindi, per cominciare, Mussolini è costretto a giocare la sua partita come un giocatore che in mano ha solo scartine e vede con terrore il momento in cui si possa dover giocare a carte scoperte. Inoltre ha acconsentito al folle Patto d’Acciaio e ora si illude che esso non sia un cappio al collo ma al contrario uno strumento di pressione sulle democrazie.
Non capisce quale sia l’agenda di Hitler e cerca di migliorare i propri rapporti con l’URSS. Snobba i moniti di Roosevelt, come se gli USA non avessero già ampiamente mostrato la loro capacità di sostenere all’infinito le Potenze amiche e di trasformarsi velocemente, all’occasione, in Superpotenza militare. E tiene in poco conto la contrarietà del Vaticano. In certe sparate, in certi giudizi, emerge a tutto tondo il provincialismo del Duce. Ma anche per gli inquilini di Downing Street è lecito parlare di vista corta. A meno che l’intervento dell’Italia a fianco della Germania essi non lo desiderassero: per portare la guerra sullo scacchiere favorito, quello marittimo, e per regolare i conti con quell’Italia smaniosa e fastidiosa.
E non a caso, scrive Di Rienzo, a fine febbraio del 1939, subito dopo il “cordiale” incontro romano con Mussolini dell’11-13 di quel mese, Chamberlain decise di rendere operativo il piano di attacco preventivo nel Dodecaneso messo a punto, già nel dicembre 1935, dall’ammiraglio Arthur Lumley Lyster. Il first-strike, grazie anche al concorso di contingenti terrestri francesi e turchi, avrebbe dovuto colpire a morte le nostre forze navali dislocate a Lero e Rodi, assicurare alla Royal Navy e alla Marine Nationale il pieno controllo del Dodecaneso, consentire loro di neutralizzare la base di Taranto, e, infine, costringere la Regia Marina a uscire in mare aperto per affrontare un impari scontro dall’esito scontato che avrebbe posto fine alla dittatura fascista. Ma se gli Inglesi pensavano in questo modo di salvare il loro Impero, sappiamo bene che si sbagliavano.
Il lavoro di Di Rienzo ci fa comprendere anche questo. E, una volta di più, ci invita a riflettere sul fatto che quasi sempre è la somma delle piccole ragioni a produrre i più grandi disastri e che le letture ideologiche del passato poco o nulla ci restituiscono della «cruda realtà della politica», come sosteneva Benedetto Croce.
(Pubblicato il 26 giugno 2024 © «Destra.it» – Libri&LIBERI)