di Alessandro Guerra
Può la controrivoluzione avere una storia? Evidentemente, per Jean-Clement Martin la domanda che apre l’introduzione del Dictionnaire de la contre-révolution XVIIIe-XXe siècle da lui curato (Paris, Perrin, 2011) ha un valore del tutto retorico, avendo quella storia assorbito un lungo tratto della sua vita di studioso. Per l’ancien directeur dell‘Institut d’histoire de la Révolution française la controrivoluzione ha una storia precisa con «forme, azioni e protagonisti» storicamente individuabili non solo in Francia, ma nell’intero panorama europeo come ha mostrato nelle sue importanti ricerche del passato. Una storia che trova necessariamente nella Rivoluzione francese il suo punto di svolta, ma non si esaurisce in una reazione ad essa. Del resto, se si osserva la produzione di Martin – dal suo primo lavoro sui Bianchi e i blu al profilo complessivo della controrivoluzione europea – si può notare come lo studioso francese abbia progressivamente ampliato il campo temporale dominato dal fenomeno controrivoluzionario nella sua duplice forma di soggetto storicamente agente e mito per-formativo dell’immaginario collettivo.
In quest’ultimo lavoro, l’origine della controrivoluzione è rintracciata negli anni Settanta del ‘700, quando al volontarismo politico che avrebbe poi condotto alle rivoluzioni atlantiche, inizia ad opporsi con più consapevolezza il giudizio della tradizione, l’ordine, la gerarchia; la conclusione viene invece rintracciata negli ultimi decenni del XIX secolo, seguendo il corso della rivoluzione che si era stabilizzata fuori dalla Francia nell’ideale comunista, innovando il suo armamentario ideologico. Da quel punto in avanti, mentre assurgeva a mito costitutivo della cultura europea, la controrivoluzione iniziò a venir ripensata come modello politico e istituzionale, con la nascita di due correnti, una apertamente reazionaria, l’altra di destra rivoluzionaria.
Per riprendere la domanda iniziale, ne consegue che la controrivoluzione per Martin ha una storia e uno statuto specifico e va affrontata nella sua irriducibile autonomia, non banalmente liquidata come rifiuto della modernità o, è stato fatto in Italia, come scontata lettura ribaltata della rivoluzione. Una storia tanto articolata, nel lungo periodo, da richiedere la necessità di un dizionario, sul modello di quelli dedicati al processo rivoluzionario da Soboul e Furet, per sbrogliarne l’intricata matassa e ridurne a semplificazione la complessità. Del resto, la stessa biografia di Martin testimonia quanto lo studio della controrivoluzione sia parallelo e non ancillare alla storia rivoluzionaria.
Il dizionario pur badando, per scelta, più alla démarche della controrivoluzione che alla verifica del suo oggetto messianico, è tuttavia qualcosa di più di uno studio puntuale che si avvale di un’equipe internazionale di studiosi prestigiosi (cito a titolo d’esempio Pierre Serna, Jordi Canal, Maria Fátima Sá e Melo Ferreira, Valerie Sottocasa). L’ambizione è quella di far uscire la controrivoluzione (Martin giustamente non si sofferma sull’interminabile disputa terminologica fra antirivoluzione, resistenza, legittimismo…) dai limiti del rancore e innalzarla al rango di terza opzione nel classico dilemma binario della rappresentazione politica impostato su rivoluzione e riforma, immaginando dunque la controrivoluzione come alternativa credibile alla crisi del momento rivoluzionario: l’idea rivoluzionaria non è scomparsa dall’orizzonte politico, sebbene sia tramontata la fede nella sua forza di cambiare il mondo e rigenerare gli uomini; allo stesso modo, continua Martin, la riforma, in tutte le sue varie declinazioni liberali o meno, non è riuscita a riorganizzare su un nuovo equilibrio il mondo. Si apre dunque lo spazio per un ripensamento della controrivoluzione come spazio autonomo di critica politica e sociale all’universalismo e alla centralizzazione, proprie di ogni pensiero controrivolu-zionario.
L’idea di una controrivoluzione autonoma e complessa, da intendere come laboratorio di nuove pratiche politiche e teoriche, appare convincente e va dopotutto nella direzione intrapresa dalla nuova storiografia francese, ma anche italiana (si pensi al volume curato da A.M. Rao, Folle contro rivoluzionarie) come conferma la bella voce dedicata alle insorgenze da M. Cattaneo nel volume curato da Martin. Al contrario, non persuade del tutto la dilatazione temporale del fenomeno controrivoluzionario al XX secolo, neppure se limitato alla sua radice simbolica: con buona pace di mons. Lefebvre che utilizzò il polveroso ricordo vandeano più in odio al Concilio che alla Rivoluzione, il passato è impossibile da far rinascere, come ha scritto nel 1989 lo stesso Martin a proposito del culto vandeano della memoria. È vero che di alcuni caratteri del pensiero controrivoluzionario permane l’eco, ma stabilire anche una minima continuità di simboli, parole, litur-gie o forme fra la Vandea e il partito nazista è forse un po’ azzardato da un punto di vista strettamente metodologico. Magari è di qualche utilità nella polemica ideologica, ma rimanere vincolati al senso generico del termine controrivoluzione finisce col negare la storicità del fenomeno stesso. Se sono molto opportune le voci su Balzac e Dickens, o quella dedicata alle donne, all’ecologia e alla virilità, che rendono viva l’innovazione della storiografia sul tema, non si comprende bene il rimando ad una impalpabile controrivoluzione mondiale perché, in definitiva, se i rivoluzionari avevano l’esplicita volontà di guadagnare l’universalità, la controrivoluzione si espresse meglio nella difesa dell’identità senza mai concepire l’idea di un riscatto del genere umano.
Molto appropriati e più incisivi i limiti spaziali, temporali e concettuali fissati dallo stesso Martin in un articolo sulla Vandea (anche nella variante di «Vandee tardive») e la controrivoluzione come forma di apprendistato politico nelle campagne francesi dal 1789 al 1832. Il saggio vide la luce nel 2004, inserito in una raccolta curata da Eugenio Di Rienzo che già dal titolo, Nazione e controrivoluzione nell’Europa contemporanea 1799-1848 (Guerini e Associati) fissava un arco temporale e tematico meglio rispondente ad un’analisi accurata del movimento controrivoluzionario. Il retroterra di immagini e simboli che aveva incendiato le passioni con la forza delle suggestioni e trasformato in imperativi di fede, per poi fortificarlo col ricorso al mito, le parole d’ordine che progressivamente si erano stratificate nelle volontà di coloro che scelsero di resistere all’invasione francese e al nuovo potere repubblicano, non priva il fenomeno controrivoluzionario della sua complessità; al contrario, lo definisce con più precisione nel richiamare ben più terrene cause economiche, politiche e sociali alla base dello scoppio delle insorgenze che quelle immagini e quei simboli accompagnavano. La controrivoluzione alla stregua del movimento rivoluzionario seppe alimentare una socialità in grado di creare senso comune, come dimostra la grande capacità di narrazione di sé degli scrittori controrivoluzionari (finemente studiata in un numero di «Memoria e ricerca» del 2007 da J. Canal, N. Del Corno, E. Di Rienzo, lo stesso Martin e C. Cassina).
Ciò non significa naturalmente la messa in discussione della grande ricchezza del volume che, per scelta esplicitamente ammessa da Martin, si è concentrata in particolar modo sulle biografie dei controrivoluzionari. Prevalgono i francesi, va da sé: c’è l’ovvia voce su Barruel e quella su Maistre, forse un po’ stringata quella dedicata a Donoso Cortès, buona quella su Bonald dello specialista Gengembre, dal tratto scolastico il profilo di Lamennais. Spiace dover constatare che la voce dedicata ai gesuiti sia tutta appannaggio del ramo francese della Compagnia, in vero forse quello dal profilo più debole anche contando Barruel, sia durante la Rivoluzione che dopo. Colpisce che non ci sia neppure una menzione per Jaime Balmes.
Ad ogni modo Martin regala una testimonianza preziosa per chiunque voglia dedicarsi alla comprensione della controrivoluzione, nella certezza che nell’analisi del fenomeno sia contenuta anche una migliore comprensione non solo della Rivoluzione, ma come dice apertamente Martin anche della società nella quale viviamo.