di Stefano Folli
Vojislav Pavlovic, storico delle vicende jugoslave nel Novecento, ha scritto un profilo biografico di Tito che condensa in un centinaio di pagine il percorso esistenziale del capo comunista, croato di nascita, che guidò il suo Paese attraverso la guerra e poi nel labirinto del dopoguerra, facendo di se stesso una figura di prestigio internazionale come leader del movimento detto dei “non allineati”. Il breve saggio è pubblicato da Rubbettino nella collana diretta da Eugenio Di Rienzo che si propone di “rivisitare” personaggi noti al grande pubblico mettendone in luce gli aspetti meno conosciuti.
Il testo di Pavlovic si raccomanda per il racconto di come il giovane Josip Broz, futuro maresciallo Tito, sfugge al suo destino di operaio o contadino e di come s’incammina sul sentiero dell’impegno politico nelle file del neonato Partito comunista jugoslavo. Grazie alla conoscenza della Russia, dove era stato in prigionia durante la Grande guerra, Tito si adegua di buon grado alle direttive di Mosca e diventa un perfetto luogotenente di Stalin. Nella Seconda guerra mondiale egli si afferma come il condottiero della resistenza comunista contro i tedeschi (e gli italiani) e su tali circostanze fonda il suo potere. L’abilità politica di Tito si afferma tuttavia soprattutto nel dopoguerra, quando si tratta di costruire la nuova Jugoslavia tenendo in equilibrio varie etnie destinate altrimenti a scontrarsi in modo sanguinoso. Cosa che avverrà subito dopo la scomparsa del maresciallo nel 1980.
La rottura con Stalin del 1948, la ricerca di uno spazio e di un ruolo tra i Paesi che rifiutavano l’allineamento formale al blocco socialista, l’intelligenza di utilizzare gli aiuti occidentali: sono tutti gesti che richiesero coraggio e lungimiranza. Ciò detto, Tito fu un autocrate tipico della sua epoca. Ruppe con Stalin, ma lo stalinismo appena addolcito rimase sempre la sua cifra. Per noi italiani il “titoismo” evoca le “foibe” in Istria e la pretesa di arrivare fino a Trieste per instaurarvi un regime di terrore. Ma, anche senza considerare questi eventi tragici, Pavlovic sembra un po’ troppo indulgente nel valutare l’opera di Tito sul piano storico. L’insistenza sul carattere “moderato” della dittatura, sui campi di lavoro da cui i dissidenti uscivano vivi, sul tenore economico dei cittadini, merita qualche riflessione in più.
(Pubblicato il 17 settembre 2023 © «la Repubblica»)