di Luca Riccardi
Un eventuale bilancio complessivo della storiografia di Gioacchino Volpe rivelerebbe senz’altro quanto la prima guerra mondiale sia stata un aspetto cardine della sua interpretazione della Storia d’Italia. All’interesse scientifico, infatti, lo storico abruzzese affiancava anche una partecipazione di ordine esistenziale che era all’origine del suo interesse di studioso. L’intreccio tra vissuto, politico e studi è caratteristico nel lavoro storiografico del Volpe, soprattutto di quello dalla fine degli anni Venti all’inizio degli anni Quaranta, quando egli dette vita a una riflessione critica sulla sua esperienza e, soprattutto, sul difficile futuro dell’Italia. E, come spesso fanno gli storici impegnati in politica, nei momenti di difficoltà, Volpe scrutava il passato per trarne indicazioni per il futuro.
Quell’Italia ho voluto più attentamente guardarla e capirla, ecco tutto: come ho voluto guardare e capire me stesso (e quale scrittore di storia, anzi quale scrittore, mentre fruga fuori di sé, non fruga anche dentro di sé, non racconta anche di sé?) [1].
Queste parole, tratte dalla prefazione alla prima edizione dell’Italia moderna, risalenti al 1943, possono essere molto utili per comprendere il testo inedito di Volpe pubblicato di recente grazie al lavoro di Eugenio di Rienzo e Fabrizio Rudi: Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, “Minima storiografica” – Piccola Biblioteca della Nuova Rivista Storica, Società Editrice Dante Alighieri.
Nella lunga introduzione, Di Rienzo inquadra questo testo nella complessa biografia politico-intellettuale di Volpe. O meglio, cerca di descrivere la svolta che rappresentò per lui l’esperienza della vicenda italiana nel primo conflitto mondiale. E quanto tutto ciò lo influenzò intellettualmente spingendolo a confrontarsi con avvenimenti che, per l’Italia, avrebbero rappresentato la genesi di una vera e propria rivoluzione politica e sociale.
Di Rienzo segnala come il particolare liberalismo volpiano, così intriso di senso nazionale (liberale nazionale appunto) si rifuse nella grande corrente dell’interventismo dando vita a un’osservazione dell’Italia a lui coeva che non sempre rispondeva a quel rigido canone dualistico interventismo-neutralismo cui una certa approssimazione storiografica ci ha abituato. Sempre Di Rienzo riprende il tradizionale confronto storiografico-politico tra Croce e Volpe utilizzando felici definizioni che danno modo di comprendere le incertezze che attraversavano la società italiana di fronte – già si intuiva nel passaggio tra 1914 e 1915 – a quel rivoluzionario turning point della storia umana che sarebbe stata la prima guerra mondiale. Il «neutralismo riflessivo» di Croce si confrontava con l’«interventismo ponderato» dello storico abruzzese. Di questa non rigida bipartizione – i cui margini sembravano talvolta sovrapporsi – troviamo un’originale ricostruzione anche nella stessa Storia d’Italia del filosofo napoletano:
Pure quelle polemiche non toccavano il fondo comune né delle idee né dei sentimenti, concordi dall’una e dall’altra parte in quel che fosse da desiderare per l’Italia, ma soltanto i mezzi, i modi e il tempo di attuare i comuni ideali. I nomi di “interventisti” e “neutralisti” erano malamente scelti […] e oscuravano la verità delle cose, perché neutralisti non ne esistevano, neutralisti di assoluta neutralità, i soli meritevoli di questo nome, ma i cosiddetti neutralisti erano anch’essi, a loro modo, interventisti [2].
Che cosa avvicinava l’atteggiamento del liberal-nazionale interventista, Volpe, a quello dei più avveduti, ma non certo meno patriottici, neutralisti «riflessivi»? Penso che fosse soprattutto l’osservazione della situazione socio-economica italiana. Un «esercito povero di quadri», un «impianto industriale» che, nonostante i progressi «restava cosa modesta» , la cronica carenza di materie prime, la necessità di ristrutturare il sistema delle comunicazioni in vista di una guerra, che non avrebbe potuto che essere offensiva, contro l’Impero asburgico. Lo sguardo dell’intellettuale, ma anche del militante politico interventista, si era alzato preoccupato sulla condizione generale del Paese che non appariva la più adatta a superare vittoriosamente una così decisiva prova bellica.
Sono notazioni assai interessanti poiché, sorprendentemente, coincidono con quelle spinsero il ministro degli Esteri del primo gabinetto Salandra, Antonino di San Giuliano, a perseguire una strategia politico-diplomatica caratterizzata da estrema prudenza. Il politico catanese era, paradossalmente, sia neutralista che interventista; cioè, nel suo pensiero, la neutralità doveva essere funzionale a un intervento che garantisse, con poco rischio, la vittoria militare e una nuova collocazione internazionale all’Italia. Fu proprio quest’attitudine apparentemente contraddittoria -ma che aveva una sua logica – che rese il politico siciliano “la bestia nera” delle correnti interventiste più determinate. Lo stesso Sidney Sonnino, che poi lo avrebbe sostituito alla Consulta dopo la sua morte, nelle prime settimane della neutralità, richiese più volte a Salandra – di cui era compagno di schieramento parlamentare – le dimissioni del ministro. L’obiettivo era il rovesciamento dell’atteggiamento “attendista”, ambiguo e controproducente per Sonnino, che San Giuliano aveva fatto assumere alla politica estera italiana [3].
Volpe condivideva le critiche che, successivamente, la storiografia ha indirizzato alla classe dirigente politica che aveva deciso l’ingresso in guerra, cioè agli stessi interventisti. Questi, infatti, avevano mostrato «un’idea imperfettissima» di quelle che sarebbero state le iniziative necessarie per mettere l’Italia in grado di intervenire efficacemente nel conflitto. Volpe, da interventista, sottolinea quale fosse stato il principale difetto delle decisioni che furono prese, nei mesi della neutralità, a proposito della prospettiva di una «guerra difficile, lunga, dispendiosissima»: l’«ottimismo». Ma questo atteggiamento era solo apparentemente innocuo. Esso, infatti, produsse una conseguenza politica immediata che poi sarebbe ricaduta come un macigno sulle capacità belliche italiane: «il poco fare e il poco disporre».
Proprio in questo passaggio si comprende in che cosa consistesse «l’interventismo ponderato» di Volpe. Egli, infatti, notava l’atteggiamento più realistico sulle condizioni del Paese tenuto dai neutralisti. Essi, infatti, manifestarono «pessimismo» sulla situazione strategica generale, in particolar modo sulla capacità di resistenza – dunque sulla probabilità di vittoria dell’Intesa – della Germania. Proprio questo «pessimismo» avrebbe dovuto indurre la classe dirigente italiana a dotare l’apparato economico e militare di un’efficienza che, fino a quel momento, era stata assai mediocre.
Volpe salva Cadorna. Il generale – arrivato alla guida dell’esercito proprio all’indomani dell’attentato di Sarajevo – manifestò la sua preoccupazione per la situazione strategica dell’Italia e, nell’agosto del 1914, chiese la mobilitazione dell’esercito che non ottenne per ragioni di ordine politico-diplomatico. Più tardi, viste le dimensioni che stava assumendo il conflitto, propose la «mobilitazione industriale». Anche quella non gli fu concessa da un governo che credeva all’idea –che propagandò nei giorni del «maggio radioso 1915 – della «guerra breve». Ha ragione Volpe a dire che quest’ atteggiamento risiedeva «nel fondo dei cuori». Era, cioè, soltanto una speranza su cui, però, si era costruita una politica e una strategia militare.
Come esempio di quest’attitudine è da ricordare il casuale colloquio che Francesco Saverio Nitti ricorda di avere avuto, nell’agosto del 1915, con Salandra. Il politico di Melfi era uno di quei «neutralisti» che, al momento dell’Intervento, aveva voluto «separare» le proprie «responsabilità» dal perdurante neutralismo giolittiano. Quando il deputato lucano disse esplicitamente al Presidente del Consiglio «che la guerra sarebbe stata lunga, penosa e difficile e che sarebbe durata parecchi anni ancora», si trovò tacciato di «pessimismo inesauribile». Salandra, infatti, riteneva che non ci fossero gli «elementi» per ritenere che la «guerra [potesse] durare oltre l’inverno». La speranza, dunque, diveniva previsione erroneamente fondata. Il capo del governo, infatti, chiuse quasi bruscamente l’argomento dicendo che «la guerra non [avrebbe potuto] essere lunga» [4].
Volpe appare fortemente critico del rapporto con l’Intesa. L’alleanza, infatti, non gli appariva essere arrivata a coordinare il sistema dei rifornimenti in maniera tale che tutti i suoi membri potessero disporre di mezzi necessari per fronteggiare vittoriosamente il nemico: «E l’Intesa pensava innanzi tutto a sé», scriveva. In effetti, al di là del momento drammatico dell’intervento, questo sarebbe stato il tenore delle relazioni politiche tra l’Italia e i suoi alleati per tutto lo svolgimento del conflitto e, come è noto, anche durante la Conferenza della Pace [5]. Nel suo scritto Volpe centra perfettamente quello che poi sarebbe stato uno dei principali problemi per la gestione della «guerra italiana»: «la coesione economica dell’Intesa». Questo tema fu particolarmente evidenziato da un altro tiepido neutralista giolittiano che, al momento dell’intervento, si ripensò patriotticamente: Luigi Luzzatti [6]. L’assenza di un’efficace cooperazione in campo economico era il riflesso della poca armonia politica progressivamente sempre più accentuata dalla poca concordanza dei rispettivi obiettivi di guerra.
Particolarmente articolato è il giudizio di Volpe sul comportamento della Santa Sede. Da interventista, evidentemente, guardava con sospetto il neutralismo cattolico e le attività che il nemico avrebbe potuto svolgere all’ombra della dichiarata equidistanza vaticana dai belligeranti. Ma ha ragione Di Rienzo quando afferma che questi suoi dubbi non tracimarono in un atteggiamento pregiudizialmente anticlericale, al contrario. Egli, con acume, scriveva:
Legittima era quella neutralità e necessaria. Forse anche benefica. Impediva che l’odio politico si dilatasse e investisse tutto il campo dello spirito. Rimaneva una zona di bonaccia e di riposo, in mezzo all’infuriare della tempesta, anche se incapace di placare, con la sua propria bonaccia, l’altrui tempesta [7].
Sono parole scritte agli inizi 1943, in un momento drammatico per l’Italia, quando l’opinione pubblica, di fronte al prossimo sgretolamento dello Stato fascista, alla probabile occupazione del territorio nazionale cominciò a guardare la Santa Sede come autorità politica e morale che avrebbe potuto proteggere la popolazione dagli sconquassi dell’occupazione e della sconfitta militare. Anche qui interveniva l’esperienza esistenziale che cercava lumi per il futuro nell’esame delle circostanze passate. Era questo un Volpe, detto per inciso, ben diverso da quello del 22 maggio 1939 – il giorno della sigla del Patto d’Acciaio – che si manifestò nell’articolo destinato alle pagine del «Corriere della Sera», diretto dall’intellettuale di regime Aldo Borelli, ma cestinato dalla redazione romana del quotidiano milanese per i suo contenuti eterodossi (il rischio evitato nel 1914 di entrare in guerra contro le « Potenze marittime»). Una diversità che si coglie non tanto tanto nell’analisi quanto nel tono e, soprattutto, nella collocazione di Mussolini al centro della scena interventista.
Tutto ciò, naturalmente, non portò Volpe a rivedere il suo atteggiamento critico verso il «pacifismo» e il «neutralismo». Sia la Chiesa cattolica, come anche molti governi europei, gli sembravano guardare l’Italia come l’ultimo confine che, una volta superato dall’incendio della guerra, avrebbe reso il conflitto globale e totale. Comunque, per lo storico abruzzese, rimaneva il fatto che il mantenimento della neutralità sarebbe stato un danno per gli interessi generali dell’Italia.
Il prosieguo del saggio volpiano appare come una lode crescente del comportamento degli italiani – regnicoli, emigrati e sudditi asburgici – nei primi frangenti delle ostilità. Anche la stessa Santa Sede veniva mostrata sì neutralista; ma tale da voler approfittare della situazione per porre sul piano internazionale la Questione Romana. Certo, aveva ragione Volpe a dire che era fallito il tentativo austriaco di «seminare zizzania tra l’Italia del Quirinale e l’Italia del Vaticano». Ma non va dimenticato che ciò che veramente separava i due colli, dove risiedevano le maggiori autorità politiche e morali del Paese, era il concetto di pace.
Per Volpe, Benedetto XV aveva un suo «programma»: «accelerare la fine della guerra, spingere i Governi alla pace, elevarsi al cospetto dei popoli come grande e massima forza morale del mondo». Il governo italiano – la cui azione si fondava sul Patto di Londra, che fu una «scelta del Re» [8] – invece, fondava il suo concetto di pace su una “dottrina” scaturita dal contenuto delle dichiarazioni che Salandra aveva fatto in alcuni momenti cruciali della vicenda italiana nel 1914-1915. Era la teoria del «sacro egoismo», formulata il 18 ottobre 1914, al momento in cui sostituì provvisoriamente San Giuliano alla guida della Consulta [9]; e poi ribadita nel discorso del Campidoglio, il 2 giugno 1915 – che lo stesso Volpe richiamava – dove emerse con chiarezza quale fosse il «programma» italiano: la pace solo dopo la vittoria. E se si guarda al contenuto finale di questo lungo e articolato intervento, si comprende come esso abbia potuto piacere l’attenzione dello storico interventista:
[…] col nostro sforzo supremo consegneremo alla generazione ventura un’Italia più completa, più forte, più onorata, un’Italia che si assida nel consesso delle Potenze non vassalla o protetta, ma sicura nei suoi termini naturali e che ritorni alle feconde gare della pace […] [10].
La pace, dunque, sarebbe potuta arrivare soltanto quando la guerra avesse sanato gli squilibri, le sperequazioni, le incertezze che avevano caratterizzato, sul piano internazionale, il primo mezzo secolo di vita unitaria del Regno. In buona sostanza, come ha notato Giovanni Spadolini, la pace «vittoriosa» di Salandra si contrapponeva a quella «onorevole» di Benedetto XV [11].
Interessante appare la valutazione che Volpe fa della partecipazione dell’emigrazione italiana allo sforzo bellico della madrepatria. Essa gli sembrò scarsa; ma, ancora una volta, non volle svalutare il patriottismo degli italiani all’estero: «Lo Stato italiano, così raccoglieva, quanto a emigrazione non molto, come non molto era quello che aveva seminato […]». Era stata la classe dirigente italiana, infatti, che aveva guardato alla «grande emigrazione» dei trentacinque anni precedenti il conflitto con «ottimismo» [12], considerandola soltanto uno «sfogatoio» dei problemi economici nazionali.
Dallo scritto di Volpe emerge con forza un’immagine positiva della società italiana nel primo anno di guerra. Ripresasi dalla contrapposizione che l’aveva attraversata nei mesi della neutralità, essa appariva sempre più coinvolta nella mobilitazione, civile o militare; e vieppiù disposta ad assecondare quella richiesta di disciplina e partecipazione che proveniva dal governo, sempre più in ansia per le sorti del conflitto. Lo sguardo dello storico abruzzese si rivolge, a un certo punto, al nuovo governo Boselli; a quel «Ministero nazionale» [13] che viene presentato – così a noi è apparso- come un coacervo di mediocrità da cui emergevano due fari politici (Sonnino e Bissolati), i quali sembravano essere il corrispondente politico della lealtà «alacre» che contraddistingueva il comportamento del cittadino italiano medio:
Sonnino è l’uomo della tenacia e della fermezza, il ministro che aveva compiuto gli atti diplomatici risolutivi, che dava garanzia di piena fedeltà agli alleati […]. Bissolati è il socialista di nuovo tipo, non «ufficiale», non «riformista» ma di un socialismo animato da esigenze morali e nazionali [p.259].
La percezione che ebbe Volpe di Bissolati coincide con la valutazione che la storiografia più autorevole – Piero Melograni – ha dato della nomina a ministro del politico cremonese. Egli fu percepito come «l’uomo nuovo dell’interventismo, come il dirigente di grande autorità e prestigio che avrebbe dovuto incarnare le speranze degli italiani» [14]. Due uomini molto diversi, insomma, per carattere e provenienza politica, ma che avrebbero potuto ben integrarsi in un esecutivo chiamato a rispondere all’offensiva austriaca – la Strafexspedition – che, proprio in coincidenza con il suo varo, si sviluppò a partire dal Trentino. Una battaglia, quella del maggio-giugno 1916, che, in qualche maniera, richiamò il contesto strategico che poi si sarebbe creato ancor più drammaticamente nell’«ottobre nero», della crisi di Caporetto: inazione russa, debolezza governativa, difficoltà organizzative dell’esercito, contrasti tra Stato maggiore ed esecutivo, assenza degli aiuti di materiali invano richiesti agli alleati dell’Intesa.
Volpe di certo sapeva come, nel 1918, lo scontro tra Sonnino e Bissolati avesse prodotto la divisione del governo Orlando a proposito dei rapporti con gli Slavi del sud; cioè del profilo politico, diplomatico e territoriale che avrebbe dovuto caratterizzare la vittoria dell’Italia in un’area determinante per lo sviluppo della sua «grandezza» postbellica [15]. Nel giugno 1916, però, quei due uomini politici sembrarono effettivamente essere la migliore garanzia che la classe dirigente italiana sarebbe stata all’altezza della prova bellica, che già s’intuiva assai più impegnativa del previsto. La prospettiva del saggio di Volpe, però, rimane quella di Caporetto, punto finale di un declino che, nonostante la bella prova del «popolo in grigioverde», avrebbe segnato gran parte della storia d’Italia del Novecento.
Il popolo italiano è lodato costantemente. E qui, forse, emerge quella tendenza dello storico abruzzese, già sottolineata dal suo biografo, a esercitare una certa «indulgenza» verso la massa degli Italiani e dell’Italia tutta [16]. La classe dirigente, invece, è vagliata con sguardo critico. A ogni passaggio del saggio di Volpe sembra emergere una domanda inespressa ma evidente: se quella classe dirigente – politica o militare – fosse stata all’altezza del sacrificio del popolo che aveva guidato. La risposta che viene dalla storiografia a lui successiva sembra essere no. Volpe, invece, sui militari, appare essere decisamente positivo. Sui politici, con alcune rilevanti eccezioni, di cui si è parlato, mostrò, invece, di avere molti dubbi che si sarebbero acuiti nel torbido e turbinoso dopoguerra italiano fino a portarlo ad aderire, nel 1920, al movimento fascista.
Note
[1] G. Volpe, Italia moderna 1815-1914, Firenze Sansoni, 1973, 3 voll., I, 1915-1898, p. IX. Sul punto si veda soprattutto E. Di Rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008.
[2] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1947, p. 296.
[3] Su San Giuliano si veda G. Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo: vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007; S. Sonnino, Carteggio 1914-1916, Roma-Bari, Laterza, 1972, documenti. 17, 27, 28.
[4] F.S. Nitti, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli, ESI, 1948, pp. 387-388.
[5] L. Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni politiche tra l’Italia e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, Brescia, Morcelliana, 1992.
[6] Id. , Luigi Luzzatti e la politica estera italiana tra pace e guerra in Id. La «grandezza» di una Media Potenza, Roma, “Biblioteca della Nuova Rivista Storica” – Società Editrice Dante Alighieri, 2017, pp. 49-56.
[7] Ivi, p. 169.
[8] La definizione è tratta da A. Ungari, La guerra del re. Monarchia, Sistema politico e Forze armate nella Grande Guerra, Milano, Luni, 2018, pp. 49-86.
[9] A. Salandra, La Neutralità [1914], Milano, Mondadori, 1928, p. 378.
[10] Id., L’Intervento [1915], Milano, Mondadori, 1930, p. 377.
[11] G. Spadolini, Le due Rome. Chiesa e Stato tra ‘800 e ‘900, Firenze, Le Monnier 1973, pp. 391-398. Sul concetto di pace di Benedetto XV, si veda anche per un approfondimento I. Garzia, La Questione Romana durante la prima guerra mondiale, Napoli, ESI, 1981, p. 87. Per il complesso della politica di Benedetto XV durante il conflitto, rimandiamo a Benedetto XV. Papa Giacomo della Chiesa nel mondo dell’ «inutile strage», direzione di A. Melloni, a cura di G. Cavagnini e G. Grossi, 2 voll., Bologna, il Mulino, 2017.
[12] La definizione è di A. De Clementi, La «grande emigrazione»: dalle origini alla chiusura degli sbocchi americani in Storia dell’emigrazione italiana, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 187-211.
[13] D. Veneruso, La grande guerra e l’unità nazionale. Il ministero Boselli giugno 1916-ottobre 1917, Torino, SEI, 1996.
[14] P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Roma-Bari, Laterza, 1969, p. 196.
[15] S. Sonnino, Diario 1916-1922, a cura di P. Pastorelli, Roma-Bari, Laterza, 1972, p. 296, annotazione del 7-8 settembre 1918.
[16] E. Di Rienzo, La storia e l’azione, cit.