di Francesco Semprini
Quando nell’agosto del 1949 arrivò a Tripoli come rappresentante del governo italiano, non era la prima volta che Roberto Gaja metteva piede in Libia, in questo caso, al posto dell’uniforme militare, indossava la divisa diplomatica, quella di console della neonata Repubblica italiana. La sua esperienza si rivela un passaggio chiave nella storia delle relazioni tra i due Paesi, così come narra il volume di Luciano Monzali, Roberto Gaja console in Libia, 1949-1952 (223 pagg.), pubblicato per la collana «Minima Storiografica», presso la Società editrice Dante Alighieri, diretta da Eugenio Di Rienzo.
Nato a Torino il 27 maggio 1912, Gaja segue gli studi classici nella città natale, dove nel 1932 si laurea in giurisprudenza. Nel 1931 inizia il servizio di leva come ufficiale di complemento nel Nizza Cavalleria, nel 1935 segue un corso di avanzamento e nel 1936 è in Libia col gruppo di cavalleria coloniale. Un anno dopo si congeda per fare il suo ingresso in diplomazia.
Dopo l’esperienza partigiana, torna alla Farnesina per approdare, tredici anni dopo la sua prima volta, di nuovo sulla sponda sud del Mediterraneo forte di un mandato che durerà fino a dopo la costituzione dello Stato libico indipendente (1° gennaio 1952). E con il compito di curare la stipula degli accordi tra la nuova leadership e la comunità italiana in quel Paese. Una missione meno pericolosa rispetto a quella che lo aveva visto protagonista nel momento di massima espansione coloniale dell’Italia fascista, ma senza dubbio non meno insidioso. Un’avventura la cui quotidianità è da lui stesso raccontata in un lungo promemoria dal titolo «Considerazioni sulla missione del console con particolare riguardo alla situazione in Tripolitania negli anni 1949-1952». Spunto per la realizzazione dell’opera di Monzali che va oltre la sola esperienza libica. La prima parte del volume è costituita da una ricostruzione della vita di Gaja, dagli anni della sua formazione alla scomparsa, avvenuta nel 1992. La seconda ospita, appunto, il lungo rapporto completato alla fine della sua esperienza come console in Libia, terminata l’11 maggio 1953.
Come lo stesso autore spiega, svanito il sogno del ritorno sulla «Quarta Sponda» e accettata la costituzione di uno Stato libico indipendente guidato dalla monarchia senussita, l’Italia di Alcide De Gasperi ingaggia una lunga e difficile battaglia politica e diplomatica per consentire la sopravvivenza della collettività italiana in Libia e preservare gli ingenti interessi economici del nostro Paese in quel territorio. In un contesto di tale complessità Gaja riesce a costruire un rapporto collaborativo a 360 gradi, con le autorità di occupazione britanniche, il nascente potere senussita e i partiti libici, nonché a guidare una riorganizzazione e un adattamento organico della comunità italiana. Due sono gli elementi portanti del mandato di Gaja. Da una parte il console mette in guardia la dirigenza politica italiana dal replicare gli errori compiuti dal fascismo. Dall’altra inaugura una nuova impostazione dei rapporti con la Libia, anteponendo agli interessi dello Stato italiano, ovvero la ripresa delle relazioni economiche bilaterali, alla difesa delle istanze della comunità italiana espulsa. Consigliando al contempo che gli italiani rimasti in Africa finanche di «arabizzarsi» e «islamizzarsi» per agevolare l’armonizzazione dei rapporti bilaterali. «Fu una scelta difficile e drammatica, ma pragmatica e ambiziosa» che in pochi anni consentì una progressiva ripresa delle relazioni italo-libiche sino alla nuova crisi nata con la rivoluzione del colonnello Muhammar Gheddafi.
Il rilancio dell’Italia fu però evidentemente funzionale a quello che succedeva su più larga scala in tutto lo scacchiere geopolitico internazionale. Al punto tale che già nel 1958, rientrato dalla Libia, Gaja stesso, ispirandosi a Charles de Gaulle e parafrasando Henry Kissinger, sosteneva che la Nazione dovesse puntare allo status di potenza nucleare. Una convinzione che lo accompagna nel suo percorso alla Farnesina dove ricopre le cariche di direttore generale degli Affari Politici, di Segretario generale e di ambasciatore a Washington. È anche editorialista del Il Tempo e direttore della rivista Affari Esteri, al culmine di un ciclo della politica estera italiana che oggi sembra lontana. A partire proprio dalla Libia.
(Pubblicato il 31 ottobre 2020 © «La Stampa»)