di Ottavio Ragone
Trent’anni dopo Tangentopoli, si scopre che l’agognato cambiamento del Paese si è rivelato solo una grande illusione. Scema il fragore del trentennio più polemico dell’Italia contemporanea, scivolando nel piatto «ritorno dell’uguale». Si torna ai blocchi di partenza. Ecco dunque le possibili soluzioni: basta federalismo ma più Stato; basta scorciatoie personalistiche nella politica ma riflessioni sulla crisi dei partiti per rigenerarli tornando allo spirito della Costituzione; basta con la moltiplicazione delle Repubbliche: la prima, la seconda, la terza, alla fine non si capisce più nulla; va fermato anche il pendolo «tra facile criminalizzazione giudiziaria della politica e la sua altrettanto facile assoluzione». Tra denunce e amaro disincanto, storicizzando il presente, si sviluppa l’ultimo saggio dello storico Aurelio Musi, La grande illusione, trent’anni dopo Tangentopoli, pubblicato da Biblion (pp. 134, € 14.00). Una disamina storico-politica che parte dal triennio decisivo di Mani Pulite 1992-1994, dalla dicotomia interpretativa presente in tanta pubblicistica tra «colpo di Stato della magistratura o rivoluzione». Né l’una né l’altra cosa, suggerisce Musi. Mani Pulite fu «l’epilogo di una crisi che viene da lontano, nasce dall’incapacità del sistema politico italiano di autoriformarsi». Musi ragiona sul problema della forma-partito in Italia, citando il suo maestro, lo storico Giuseppe Galasso. Ricorda le parole di Vittorio De Caprariis sulla rivista Nord e Sud quando, fin dagli anni ’50, presago della crisi, chiedeva la definizione di uno «Statuto pubblico dei partiti». La parabola conduce al «partito pigliatutto» teorizzato da Otto Kircheimer, che trionfa in Italia fra gli anni Settanta e Ottanta. Poi l’autore si sofferma sul «cambio di clima» e sulla «attuale ritirata del partito dei pubblici ministeri». Parte dal giudizio di Edmondo Bruti Liberati su Mani Pulite come «doveroso intervento repressivo e penale di fronte a un vero e proprio sistema di corruzione». Ma sottolinea anche la denuncia del «populismo giudiziario»: perché, scrive Musi, «la magistratura in molti casi non ha svolto il suo compito istituzionale e le sue inchieste hanno dimostrato di essere prive di valenza giuridica». Solo che da un eccesso siamo caduti nell’altro: «Con troppa facilità si sta passando dalla deplorevole criminalizzazione giudiziaria, spesso non fondata su prove valide e certe, alla assoluzione politica. Quasi che la fine ingloriosa di tante roboanti inchieste della magistratura potesse configurare automaticamente un colpo di spugna sull’azione politica degli imputati». Non sarebbe ora, invece, «di fermare il pendolo tra facile criminalizzazione giudiziaria della politica e sua altrettanto facile assoluzione?».
Il trentennio post Tangentopoli è anche quello che ha visto fiorire il “partito dei sindaci”, nato sulla base della legge elettorale del 1993. Nei primi anni gli effetti furono positivi, ma poi subentrarono la personalizzazione, la nascita del “partito dei sindaci” fino alla variante attuale: il “partito del sindaco”, che governa la città senza rendere conto al consiglio comunale o ai partiti, facendo leva sulla burocrazia e sugli assessori che rispondono unicamente a lui. Sicché «i nuovi amministratori, lungi dal contribuire al superamento della crisi della forma-partito, le hanno inferto il colpo di grazia».
E siamo giunti infine al miraggio federalista. «In Italia il federalismo non ha basi storiche. È una illusione o è stato uno strumento di pura battaglia politica», osserva Musi. Ricorda l’irruzione di Bossi nel sistema e l’influenza dei temi propri della Lega sulla politica italiana. Ma, obietta, come si può parlare di federalismo alla luce del fallimento delle Regioni istituite nel 1970? Insomma forse è giunto il momento di fare coraggiosamente marcia indietro: «Occorre più Stato oggi, meno decentramento regionale». Nel trentennio dopo Mani Pulite «sono rimaste immutate tre malformazioni genetiche del sistema politico italiano: l’assenza di un serio partito conservatore di destra e di una forza liberaldemocratica di sinistra, capaci di creare un vero bipolarismo; la frammentazione del sistema politico; l’assenza di un efficace coordinamento tra centro e periferia, tra governo nazionale e governi locali del Paese». Il passaggio dal sistema elettorale proporzionale al maggioritario e poi al più recente neoproporzionalismo «ha moltiplicato invece di semplificare il numero dei simboli di partito. Le riforme costituzionali hanno rappresentato più il tentativo di destabilizzare il Paese che un organico e lineare tentativo di modernizzazione». Meglio prima allora? È stato tutto inutile? No, risponde Musi. «Ma forse siamo giunti, dopo l’apogeo degli anni scorsi, alla fine del partito personale. E alla diffusione generalizzata di un pericoloso disincanto che sta investendo la massa dei cittadini». Sicché, avverte lo storico, «è al partito dell’astensione che si dovrà guardare nei prossimi anni per ricostruire su nuove basi il sistema politico». Facendo tesoro degli errori per esorcizzare «il ritorno dell’uguale».
(Pubblicato il 30 agosto 2022 © «la Repubblica»)